«Non si può andare avanti con le autoassoluzioni. M5S dev’essere più autonomo dal Pd. Se dovesse servire una scossa, sono pronta a dare le dimissioni da vicepresidente». Così parlò Chiara Appendino all’assemblea congiunta del Movimento successiva alla batosta in Toscana, la terza in tre settimane, dopo Calabria e Marche. La notizia non sta nelle dimissioni, che o si danno o, se si minacciano, indeboliscono solo chi le paventa. La notizia è che Appendino sia ancora vicepresidente di Cinque Stelle e voglia far credere all’improvviso che la carica conti qualcosa. Per la cronaca, con lei c’è l’impalpabile Michele Gubitosa, la capessa Paola Taverna, vicinissima a Conte, e i mai pervenuti Riccardo Ricciardi e Mario Turco.
La scossa è stata talmente impercettibile che Conte sostiene di non averla avvertita. Di certo l’avvocato del popolo, che è padre e padrone del partito più di Beppe Grillo, se l’è legata al dito e presenterà il conto.
Ieri però ha fatto il finto tonto, cosa che gli riesce benissimo: «Appendino? Non c’è stato nessun annuncio di dimissioni, altrimenti me ne sarei accorto. E poi siamo tutti in scadenza, anch’io, per cui le dimissioni di Chiara ora non avrebbero nessuna logica». Per capirne di più, non resta che vedere se l’ex sindaco di Torino sarà confermata alla vicepresidenza.
Al momento, per i non addetti ai lavori è opportuno chiarire che lo sfogo di Appendino, pur avendo una logica politica ferrea, è viziato da vicende personali. La parlamentare ce l’ha con il Pd perché nella sua Torino la denunciò alla magistratura per gli affidi facili e godette quando lei fu condannata per la tifosa morta in seguito al caos di piazza San Carlo, nel giugno 2017, quando il mega teleschermo trasmetteva la finale di Champions tra Juventus e Real Madrid e lei, tifosissima, era in tribuna a Cardiff ad assistere alla sconfitta dei suoi beniamini. Insomma, Chiara non vuole allearsi con chi le stava preparando la forca, e c’è da capirla.
Ma veniamo alla politica. Le recenti Regionali dicono che in Toscana in cinque anni M5S ha perso sessantamila voti, nelle Marche sedicimila e in Calabria, malgrado presentasse il candidato presidente, circa diecimila. D’accordo che le Amministrative non sono il terreno di caccia dei Cinque Stelle, ma il campo largo ha ristretto parecchio il Movimento, che si è attestato in media intorno al 5%, la metà di quanto raggranellato da solo alle Europee del 2024, parimenti elezioni tradizionalmente non favorevoli alla banda grillina. La paura è perla Campania, dando per scontato che il 23 novembre M5S in Veneto sarà asfaltato e in Puglia soffrirà le pene dell’inferno, malgrado si tratti della terra natia del leader Giuseppi.
Cinque anni fa, quando Vincenzo De Luca trionfò con il 67% delle preferenze, i grillini superarono comunque il 9%, con oltre 233mila voti. Oggi il partito presenta il candidato presidente, Roberto Fico, che parte in vantaggio su Edmondo Cirielli, il generale di Fdi che corre per il centrodestra. In caso di sconfitta dell’ex presidente pentastellato della Camera, la debacle sarebbe totale. Forse è l’unico evento che potrebbe arrivare a mettere in discussione la leadership dell’inamovibile Conte. Senz’altro sarebbe una campana a morto per il campo largo.
Ma l’ipotesi non è nemmeno presa in considerazione nel quartier generale grillino. La paura, realistica, è che il Movimento anche nel suo feudo balli intorno al 5% o, comunque, finisca per essere la quarta forza del centrosinistra, pur esprimendo il governatore, dietro Pd, lista De Luca e Avs, da cui è stato umiliato in Toscana. È quello a cui punta il governatore uscente, che non perde giorno per insultare Fico e sta lavorando per costruire una giunta in cui il pentastellato sia isolato e neutralizzato. Le premesse del crollo ci sono. La Campania è terra che non perdona.
Ne sanno qualcosa Luigi Di Maio, l’enfant prodige di Grillo, e Carmine Spadafora, arrivato dalla provincia di Napoli alla vicepresidenza del Coniglio. Quando i due parteciparono alla manovra di palazzo che sbalzò Conte per piazzare Mario Draghi al suo posto, gli elettori li considerarono dei traditori e non li rivotarono, chiudendone la carriera parlamentare. Oggi che l’avvocato del popolo si è alleato a M5S si dimostra che la coppia aveva solo anticipato le mosse del nuovo capo; però si sa che in politica la tempistica è tutto. Il rischio per Giuseppi è che gli stessi elettori che considerarono Gigino un voltagabbana perché si era alleato con il Pd ora estendano anche a lui il ragionamento. Non ci vorrebbe poi troppa fantasia per farlo.
La questione però è: può Appendino scalare il partito e riportarlo alla corsa solitaria sfidando Conte senza che la appendano per i piedi, metaforicamente parlando? Impossibile. Certo, l’ex premier non ha escluso di rompere con il Pd ed è possibile che, quando lo farà, manderà avanti qualcuno dei suoi inutili vicepresidente a fare la prima mossa e dissotterrare l’ascia di guerra. Ma non è stato ieri il giorno, e quindi alla fine anche Chiara rischia di aver sbagliato i tempi pur vedendoci giusto. A meno che, da Torino, l’ex sindaca non abbia intuito ciò che a Roma qualcuno inizia a dire sottovoce. Tre quarti del Pd si è rotto le scatole di Elly Schlein e non considera di farsi rappresentare da lei alle prossime Politiche neppure come il peggiore degli scenari.
Siccome alla fine dal centro progressista renziano non uscirà nessuno in grado di unire la sinistra e si inizia a ritenere che sarebbe un peccato bruciare il tentativo di un centrosinistra moderato con un’elezione a perdere, Conte potrebbe essere il candidato della coalizione, felice, unitario e consapevolmente perdente. E poi si vedrà... Un uomo approdato a Palazzo Chigi grazie a una telefonata da Milano mentre lui faceva il bagno in spiaggia una domenica d’estate, salvato a Palazzo Chigi dal suo nemico Matteo Renzi quando il Pd lo aveva mollato e restato al governo un anno in più causa pandemia improvvisa ha diritto a pensare che la Provvidenza in ogni caso provvederà per lui.