Nell’ovazione della sala all’annuncio della candidatura di Luca Zaia come capolista in tutte le circoscrizioni del Veneto, è leggibile la lezione politica che il Doge ha impartito un po’ a tutti: alleati e “colleghi”. Ricapitoliamo: al leghista più amato dai veneti, in questi ultimi mesi ne sono capitate di tutti i colori. Nell’ordine: gli hanno negato il terzo mandato; gli hanno detto “no” alla sua lista civica (che cinque anni fa aveva raccolto il 45% dei voti di tutto il centrodestra) e infine gli hanno negato la possibilità di inserire il suo nome nel simbolo della Lega. Lui, comprensibilmente, s’è incazzato, ha scagliato qualche serenissimo “sacramento”, ma poi invece di perdersi in inutili polemiche ha fatto l’unica cosa che un politico di lungo corso poteva e doveva fare: si è messo in saccoccia i mal di pancia e ha deciso di metterci la faccia. Voi mi ostacolate? - ha ragionato il Doge - , e io mi candido portando in dote tanti voti che daranno peso al mio partito, la Lega. Voti coi quali, volenti o nolenti, tutti dovranno fare i conti già dal giorno dopo il voto del 23 e 24 novembre.
Una decisione presa in accordo con Salvini, col quale sembra essere tornata la pace: «Io e Luca non abbiamo mai litigato, io e lui ci sentiamo spesso la mattina commentando divertiti gli articoli dei giornali», ha detto ieri il leader del Carroccio. E ancora: «A chi dà fastidio Zaia? Magari a qualcuno che non ha voluto liste civiche, liste personali. Secondo me, è sempre un errore limitare la possibilità di scelta per i cittadini e per gli elettori, però ci sarà il nome di Zaia in tutte le schede». Il riferimento, piuttosto esplicito, è agli alleati di Fratelli d’Italia e Forza Italia che hanno sempre detto “no” a un impegno diretto di Zaia con una sua civica. Anche se, osservava ieri il ministro meloniano Tommaso Foti: «Ognuno fa le sue scelte, non possiamo predeterminare le liste di altri partiti». Ad ogni buon conto in casa Lega sono le parole del segretario a tracciare un solco dalle polemiche e dalle ricostruzioni cervellotiche di una Lega “zaiana” pronta a mettersi in proprio. Il tutto nel più puro spirito leghista, retaggio del Bossi-pensiero secondo cui: nelle sezioni, tra di noi, si litiga e ci si mena pure, ma fuori da lì la Lega è una e compatta sulla linea scelta dal partito. Piaccia o meno.
La lezione politica impartita da Zaia, però, chiama in causa un altro nome che per la Lega rischia di diventare ingombrante: il generale Roberto Vannacci, che in Toscanaal netto del risultato - ha dimostrato di essere piuttosto distante da una qualsiasi disciplina di partito. Intanto perché ha rifiutato la richiesta arrivata dal segretario di candidarsi per trascinare la Lega alle urne. Poi perché una volta atterrato in Toscana come “padrone” della campagna elettorale è riuscito a litigare praticamente con tutti. Da Susanna Ceccardi, che cinque anni fa da candidata governatrice aveva trascinato il Carroccio a un ottimo risultato, al capogruppo uscente Giovanni Galli che, appreso dei metodi vannacciani, ha preferito sfilarsi dalla corsa. Uno scollamento che ha innervosito Salvini e portato al risultato deludente di lunedì scorso. Non contento, ieri si è cimentato in due interviste a Stampa e Repubblica, piuttosto infelici, dove ha spiegato che senza di lui la Lega sarebbe all’1%. Il generale ha usato parole urticanti, divisive, che non serviranno a rasserenare gli animi. Insomma l’esatto contrario di quanto abbiamo visto fare a Zaia. Il generale, a differenza del Doge, ha deciso di non metterci la faccia e giocare in difesa per non perdere l’aurea delle Europee. Ma la politica non è l’esercito.
Le gerarchie cambiano velocemente, così come il gradimento dell’elettorato. Detto fuori dai denti, Vannacci da tempo appare sopraffatto dal suo nuovo ruolo di vice segretario della Lega ed europarlamentare. E la sua figura si è appannata. Le prime avvisaglie si erano già viste a Pontida dove al boato per la sua salita sul palco, era seguito un applauso poco più che di circostanza alla fine di un discorso giudicato deludente un po’ da tutti, con la sola eccezione delle penne di sinistra che vedevano nella “vannacizzazione” della Lega, l’unica speranza per togliersi di torno Matteo Salvini. A tutto questo si aggiunge un malumore serpeggiante tra i fedelissimi del generale, che ieri ha dovuto digerire un uno-due di non poco conto. Prima il presidente dell’associazione Il Mondo al contrario, Norberto De Angelis, che in un comunicato scrive nero su bianco che «non siamo e non vogliamo essere un partito politico». Poi la pasionaria varesina Stefania Bardelli, che in un’intervista spiega che: «Secondo me l’abbinamento Lega-Vannacci non funziona» e «Fatico a ritrovare il Roberto Vannacci di due anni fa, quello che esprime liberamente ciò che pensa, com’è sempre stato». Vannacci finito? Certo che no, ma per il generale è consigliabile un sano esame di coscienza.