Guai a chi tocca il Rosatellum. La tanto criticata - anche a sinistra - legge elettorale attualmente in vigore, quella che prevede per due terzi liste bloccate e per un terzo di collegi uninominali, una manna per i segretari di partito che scelgono di fatto chi portarsi in Parlamento, è diventata la linea del Piave del centrosinistra. La mutazione è avvenuta da quando il centrodestra ha iniziato a pensare di cambiarla. Da mesi se ne parla, ma solo nei corridoi deserti di Montecitorio. Dopo le elezioni regionali, c’è stata un’accelerazione dell’altra riforma, quella del premierato, e connessa a questa, è torna sulla scena l’intenzione di cambiare legge elettorale, come ha confermato mercoledì Giovanbattista Fazzolari, braccio destro di Giorgia Meloni, all’evento di Libero: «Sarebbe bene avere già prima una legge che rispecchia quella che dovrà essere adottata con la riforma del premierato. Credo che il proporzionale con premio di maggioranza e indicazione del premier sia anche il modo più trasparente per chi non si occupa di politica».
«Vogliono cambiare la legge elettorale perché temono di perdere», ha detto Angelo Bonelli di Avs. «Se il sistema garantisce già stabilità, perché modificarlo?». Gli ha fatto eco Nicola Fratoianni: «È un malcostume radicato da decenni, ma non si cambia la legge elettorale a ridosso del voto e in ragione di una propria convenienza». La verità, ha commentato Enrico Borghi, senatore di Italia Viva, è che «la destra comincia a mostrare segni evidenti di nervosismo, come dimostra il rilancio sulla legge elettorale e sul premierato». Ancora più arrabbiato Davide Faraone, sempre di Italia Viva: «Non vogliono cambiare la legge elettorale. Vogliono cambiare il risultato». Anche il Pd alza le barricate: cambiare la legge elettorale, ha detto ieri Piero De Luca, «è una scelta che sembra più una reazione alla sconfitta e alla preoccupazione di perdere le elezioni». Tace il M5S che, nei giorni scorsi, si era detto, invece, favorevole a cambiare il sistema attuale in senso proporzionale.
Il fatto è che il Rosatellum conviene a due categorie: i partiti piccoli che sono in coalizione, perché in forza dell’alleanza possono rivendicare qualche posto nei collegi uninominali, e i segretari di partito, perché con le liste bloccate possono scegliere una pattuglia di fedelissimi. Non solo.
Con l’attuale legge, viene meno la necessità di scegliere prima il candidato premier. Va da sé che, per come è costruita, le coalizioni esistono (perché c’è la quota uninominale), ma si contano sulla base del risultato che fa ciascuna lista nella quota proporzionale. Di conseguenza, con l’attuale sistema Elly Schlein sarebbe naturalmente la prescelta per Palazzo Chigi, nel caso il centrosinistra ottenesse la maggioranza. Se, invece, si dovesse modificare la legge elettorale, inserendo l’obbligo dell’indicazione del candidato premier (magari con l’escamotage della firma del programma elettorale), si aprirebbe un nuovo film. A quel punto, la sfida tra Schlein e Conte si dovrebbe giocare prima del voto. E il maggior consenso del Pd potrebbe non essere condizione sufficiente per assicurare la vittoria a Schlein.
L’altro problema, dal punto di vista del Pd, è che con la legge attuale, numeri alla mano, il centrosinistra potrebbe vincere in quasi tutti i collegi uninominali del centro sud. Sommando la forza del M5S e quella del Pd, che al Sud può ancora contare sulla forza di alcuni nomi forti, lo scacchiere dei collegi si tingerebbe di rosso. Le ultime elezioni regionali hanno confermato questo scenario, di cui da tempo si parla in Transatlantico: il baricentro del centrosinistra è spostato al Sud. Da lì, da Puglia e Campania, come ha detto chiaramente Schlein, può ripartire la riscossa della coalizione progressista per poi puntare a Palazzo Chigi. Per le stesse ragioni la maggioranza vuole cambiare la legge elettorale.