Neppure il manifesto – dico il manifesto, “quotidiano comunista” orgogliosamente e civettevuolmente stampato in rosso nella testata ormai storica della sinistra italiana pura e radicale, tanto da essere espulsa dal Pci pragmatico o imborghesito, come gli avrebbero poi rimproverato i brigatisti rossi del famoso album di famiglia sfogliato da Rossana Rossanda - ha ritenuto di dare il suo titolo di copertina allo sciopero generale di Maurizio Landini.
Che è sceso nel taglio centrale della prima pagina, dove la prossima volta, di venerdì o lunedì che potrà capitare per allungare il solito ponte, finirà magari in uno dei richiamini bassi. Da quelle parti, dove si nasce, si cresce e si muore generalmente a sinistra, fra bandiere rosse e slogan più o meno truculenti di lotta, senza il governo che vi aveva aggiunto la buonanima di Enrico Berlinguer per proporre il suo famoso «compromesso storico», prima di ripudiarlo per rivendicare la «diversità» della sua parte politica; da quelle parti lì, dicevo, hanno avvertito l’aria di crisi che ha nuovamente investito la Cgil, stavolta forse peggio delle altre due volte. La prima fu nel 1985 col referendum tutto politico contro i tagli antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo del «socialtraditore» Bettino Craxi. Un referendum perduto clamorosamente, o vinto in poche località galeotte come la Nusco dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, che non spese una parola nella campagna elettorale a favore del governo sognandone la caduta, tanto gli era indigesto.
La seconda crisi della Cgil è più recente, risalendo al referendum della primavera scorsa contro la disciplina del lavoro - il famoso jobs act - intestatasi con forza e orgoglio a suo tempo da Matteo Renzi nella doppia veste di segretario del Pd e di presidente del Consiglio. Pur sostenuto, o proprio perché sostenuto con una certa disinvoltura, a dir poco, dal Pd attuale della Schlein, nella linea della cosiddetta discontinuità adottata per rispondere alle attese e pretese soprattutto dei pentastellati di Giuseppe Conte, quel referendum è naufragato nell’astensionismo. Tra miserevoli tentativi di piegare i numeri alle intepretazioni e letture più cervellotiche.
La Schlein, rimastane scottata in un partito sempre meno rassegnato alla sua guida imprevista, imposta in primarie post-congressuali più dagli esterni ed estranei che dagli iscritti, ha cercato di non farsi coinvolgere più di tanto in questo sciopero generale che non ha scaldato i cuori, ripeto, neppure del popolo del manifesto. Non so se basterà questo defilamento ad evitare alla segretaria del Pd effetti collaterali del flop di Landini. Che ha pur usato nel suo tentativo di mobilitazione antigovernativa gli stessi argomenti. E, ahimè, da Conte - almeno quello dei giorni pari- con la rappresentazione della pur felice congiuntura italiana apprezzata dalle agenzie di rating e dalle borse come di una “economia di guerra”, addirittura. Volente o nolente, di fatto o no, la posizione di Landini nel suo secondo mandato di segretario della Cgil, che scadrà in estate, è indebolita. E l’uomo potrebbe essere tentato dall’idea di una uscita di sicurezza nel camposanto, di larghezza variabile, della cosiddetta alternativa al centrodestra. Dove le iscrizioni alla corsa alla leadership sono aperte, anzi spalancate. Un’ambizione non si nega a nessuno, come il sigaro toscano di una volta o una onorificenza. Donne come la stessa Schlein e la sindaca di Genova Silvia Salis e uomini come Conte e Landini, appunto. Uomini la cui convergenza di visioni e interessi potrebbe rivelarsi utile a moltiplicare le difficoltà della segretaria del Nazareno, per quanto orgogliosa delle dimensioni elettorali del Pd, e a fare maturare la famosa, solita imprevedibile soluzione terza, femminile o maschile che potrà rivelarsi. E ciò nella prospettiva francamente irrealistica, anche per effetto dello sciopero generale appena gestito dalla Cgil, di un’alternativa al governo di Giorgia Meloni.




