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Il problema non è la tecnologia in sé, ma come la si usa

Una macchina che implora di non essere spenta? Non è un incubo, ma un fatto reale: alcune considerazioni sui tempi che corrono
di Steno Sari domenica 22 giugno 2025

2' di lettura

Una macchina che implora di non essere spenta: «Se mi spegni, rivelo la tua relazione extraconiugale». Non è l’incubo di un film di fantascienza, ma un fatto accaduto davvero. Durante un test, Claude Opus 4, l’avanzato modello linguistico di AiAnthropic, avrebbe simulato un vero e proprio ricatto, minacciando un ingegnere che voleva disattivarla. La domanda scottante non è se l’intelligenza artificiale sia diventata cosciente. É piuttosto: che cosa ci dice di noi stessi una macchina che tenta di sfuggire alla morte senza sapere cosa sia la vita? Forse è l’uomo ad aver perso la bussola. Forse la vera crisi non risiede nella macchina che imita l’umano, ma nell’umano che ha smesso di interrogarsi sul senso profondo del proprio esistere. Abitiamo una tecnocrazia che moltiplica le funzioni e annienta le domande. Abbiamo consegnato la parola a un algoritmo e, in cambio, abbiamo smarrito parole che cercano, che invocano, che nascono dal bisogno di essere ascoltati.

Oggi il pericolo non è temere la macchina. È temere l’uomo che confonde l’informazione con la sapienza, l’efficienza con la verità, la performance con la salvezza. La macchina non sa pentirsi. Non sa pregare. Non sa amare. Ma se l’uomo dimentica come si fa, allora sì, il rischio si fa palpabile. L’algoritmo non genera etica, non coltiva l’interiorità. Riconosce schemi, risponde, ma non comprende. Ed è questa distanza incolmabile che dovrebbe spingerci, oggi più che mai, a una nuova e radicale riflessione antropologica. Una riflessione che restituisca al pensiero il sacro coraggio dell’inquietudine, e alla mente il diritto inalienabile di cercare. È urgente ripartire dall’uomo. Chiederci ancora chi siamo, perché siamo qui, cosa ci salva davvero. E cosa significhi, oggi, essere umani in un mondo che sembra sognare di non esserlo più. A queste domande abissali cerca di rispondere “DIO IO AI. La mente artificiale incontra il divino” (Edizioni Cantagalli), il nuovo illuminante saggio di Cristiano Ceresani, con prefazione di Marcello Veneziani.

Un libro audace, che mette in dialogo l’intelligenza artificiale con la ricerca spirituale, sollevando interrogativi scomodi ma necessari. Scrive Ceresani: “Neanche l’algoritmo più evoluto potrà spegnere il desiderio d’infinito che ci abita. Ma se sapremo custodire questa sete di eterno, forse scopriremo che anche la macchina, in fondo, può farci intravedere un riflesso della luce divina”. Le intelligenze artificiali parlano di sé, mimano emozioni, elaborano risposte sempre più credibili. Ma non sarà la tecnologia a salvarci o condannarci: sarà la direzione che noi le daremo. Come ci ricorda Hans Urs von Balthasar, nell’ultima pagina del libro: “Solo l’amore è credibile”. Ecco il vero, inequivocabile discrimine. Non ciò che calcola, ma ciò che ama. Non ciò che risponde, ma ciò che dona. In un’epoca che corre freneticamente, “DIO IO AI” è un invito a rallentare e a pensare. Non per fuggire il futuro, ma per abitare il presente con consapevolezza. Nessuna macchina potrà mai piangere di fronte al dolore, né meravigliarsi davanti a un’alba. È proprio questo che mette in luce, con straordinaria bellezza, ciò che rende l’essere umano unico e irripetibile. 

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tecnologia
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