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L'intelligenza artificiale ci dice chi votare, ma non va proibita

L'idea che le autorità europee hanno di poter regolare e vietare tutto non sembra adatta a risolvere i problemi più sostanziali generati dall’avvento di questa nuova tecnologia
di Corrado Ocone mercoledì 22 ottobre 2025

3' di lettura

In quanti, recandosi alle urne, non sanno a chi dare il loro voto? I motivi possono essere i più svariati: scarsa informazione, insufficienza dell’offerta elettorale, incertezza o dubbi sui singoli candidati. A quel punto, potrebbe sorgere l’idea di chiedere consiglio a qualcuno che si ritiene un amico o semplicemente uno che ne sa più di noi. Fermo restando che il consiglio non è ancora la decisione, che spetta al singolo votante, il rischio è di incorrere in un cattivo consigliere. È una dialettica che esiste da sempre, tanto che la saggezza popolare dice che se l’opinione è dei molti e il consiglio dei pochi, la decisione è sempre di uno solo. Ora, l’autorità olandese per la privacy, in vista delle elezioni parlamentari del 29 ottobre, ci fa sapere che i chatbot basati sull’intelligenza artificiale sono appunto un cattivo consigliere e che le loro operazioni non sono trasparenti e verificabili. A dimostrarlo sarebbe una ricerca che mostra che essi «forniscono un’immagine altamente distorta del panorama politico olandese», penalizzando le forze moderate. Come quasi sempre accade in questi casi, l’autorità non si limita a dare un consiglio, ma invita gli sviluppatori a «impedire che i loro sistemi vengano utilizzati per consigli di voto». E in più si appella alla legge sull’intelligenza artificiale appena licenziata dall’Ue e che, quando entrerà in vigore, classificherà sicuramente come “sistemi ad alto rischio” e quindi proibirà questi (più o meno interessati) suggeritori.

Questa notizia si presta a diversi livelli di analisi. Una cosa però sembra chiara: l’idea che le autorità europee hanno di tutto poter regolare e molto vietare non solo non sembra adatta a risolvere i problemi più sostanziali generati dall’avvento di questa nuova tecnologia ma rischia di crearne altri e diversi. Più che le regole può infatti la cultura, e ovviamente l’educazione. Sembra fin troppo evidente che si tratta prima di tutto di favorire la nascita di una cultura dell’utilizzo di questi mezzi. E una cultura dell’esercizio della libertà, che è sempre personale. Chi è infatti, fra gli esseri ragionevoli, può infatti mai pensare di sciogliere i propri problemi di voto o di scelta delegando completamente ad altri una facoltà così personale come il decidere con chi stare? Direi, solo chi della libertà non conosce fino in fondo il sommo valore ed è disposto a barattare un po’ di sicurezza in cambio del suo esercizio, che è il solo che può dirsi profondamente umano. Quanto al regolismo spinto, esso presenta almeno due forti criticità.

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Prima di tutto, rischia di isolare l’Europa da processi che altrove filano dritti, rendendola a lungo termine succuba delle altre potenze. L’idea che gli altri stiano lì ad aspettare le “buone regole” imposte dal vecchio continente, più che un errore rischia di essere un crimine, per dirla con Fouché, considerato il carattere spesso autocratico delle potenze che dominano in questo momento il mondo. Secondariamente, i processi di regolazione non sono mai imparziali o neutrali. Anzi rischiano di far passare come tali i tabù e le idee interessate di ristrette élite. Molto meglio sarebbe che le regole emergessero dal basso, per processo spontaneo. E che il diritto regolasse solo gli atti propriamente delinquenziali. Viviamo un tempo di grandi trasformazioni, che non siamo ancora in grado di governare e forse nemmeno di pensare. Non occorre averne eccessiva paura. Certo, c’è bisogno di un grosso sforzo culturale. Ma è chiaro che solo l’educazione e la pratica della libertà potrà salvarci. 

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