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L'irresistibile superiorità del burro

Se l'olio fa l'unità d'Italia, il burro la disfa: prerogativa nordica guardata con sospetto dal Meridione, resta un grasso ineguagliabile
di Andrea Tempestini venerdì 9 maggio 2025

2' di lettura

In questa rubrica ragionammo su come, per ragioni storiche, l’acciuga fece l’unità d’Italia. Un po’ come l’olio, che però unisce lo Stivale per ragioni produttive: l’eccellenza viaggia da Puglia a Toscana, dalle Marche al Friuli e fino al Garda (straordinario, il Dop lacustre). Ecco, poi c’è il burro che dell’olio è antagonista. E il burro è un po’ come Papa Pio IX e i Borbone, che l’unità d’Italia la aborrirono. Infatti il mio grasso prediletto è sostanziale prerogativa del Nord sia in termini produttivi (chi burrifica in Sicilia?) sia in termini di impiego: se l’olio è trasversale, il burro dai confini meridionali del Piano Padano in giù è come l’ansia da palcoscenico per un attore, il male assoluto. Fattacci vostri (e ricordate che l’orgasmico Bocuse diceva: «Il segreto della mia cucina? Burro, burro e ancora burro!»).

In ogni caso, per dar corpo all’intemerata, mi permetto una digressione sul linguaggio. Avete fatto caso a quanto l’accezione extra-culinaria di “olio” sia negativa? Esempi: olio di gomito significa faticare; il capello unto afferisce al concetto di oleosità ; dell’olio di ricino non stiamo neppure a parlarne; un piatto troppo unto è sgradevole mentre se fosse troppo imburrato sarebbe Bocuse (furono 3 stelle Michelin). Ora prendiamo l’accezione extra-culinaria di “burro”: burros* (sia mai che ci accusino di sessismo) è una piacente categoria umana; la carne che si taglia come burro è la migliore; sciogliersi come burro al sole è tenerezza; per gli anglofoni «to butter someone up» significa lusingare con garbo. Abbondanza, morbidezza, generosità. I primi a burrificare furono gli antichi sumeri, all’incirca 4.500 anni fa. 

La leggenda narra che il prodotto sia stato scoperto per caso: il latte trasportato e sballottato negli otri si separò in siero e... burro. Agli esordi veniva usato come lozione per la pelle e, nel Medioevo - quando era un lusso- alcune regioni pagavano le tasse in burro. Tutt’oggi in India il “ghee”, burro chiarificato, è simbolo di purezza e salute (tanti saluti ai grassi saturi). 

Flaubert, in Madame Bovary, descriveva tavole imbandite sulle quali il burro, simbolo dell’opulenza borghese che Emma Bovary vanamente inseguiva, era onnipresente. In un passaggio de Il giovane Holden il burro, morbido e deperibile, è metafora della fragilità adolescenziale tratteggiata da Salinger. Poi c’è Grand Budapest Hotel, il miglior film di Wes Anderson, dove è parte integrante di una perfezione estetica irraggiungibile. Ci sarebbero anche Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi, non plus ultra dell’iconografia del burro, desiderio e sopraffazione. Ognuno interpreti la scena come vuole. Tant’è, burro batte olio dieci a zero.

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