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Maurizio Costanzo, il custode inimitabile dei nostri ricordi

Francesco Specchia
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Non pensavamo potesse morire, nonostante la pungente fragranza d’eternità che si spandeva tutte le volte che una telecamera lo inquadrava (e le volte erano parecchie). Anche ora che ci ha lasciato, l’immagine di Maurizio Costanzo (romano, classe ’38, Abramo biblico della televisione) continua ad avvolgere di nostalgia i palinsesti; e i social s’intasano di ricordi, migliaia di voci s’elevano quasi a connotarne, per lui, il vincolo delle Belle Arti. Costanzo era il vero giornalista polifonico. Pensate a un ruolo, a un’innovazione, a un sogno nel mondo del giornalismo, dell’arte, dell’editoria: Costanzo l’aveva fatto. La carriera fulminante, da 18enne a Paese sera con la famosa lettera di buon propositi a Indro Montanelli, e nei settimanali femminili; la radio come autore e conduttore passando da Filogamo a Ennio Morricone; il cinema nel ruolo di sceneggiatore assieme a Sandro Parenzo, a creare pietre miliari con Pasolini, Avati, Scola (il film Una giornata particolare su tutti), Paolo Villaggio per il quale s’inventò il personaggio di Fracchia; la musica con Mina (Se telefonando era sua); le innumerevoli commedie a teatro; la prima scoperta tecnica del digitale terrestre, quando a Mediaset non ci credeva nessuno. Eppoi mi ricordo i suoi seminari all’università, Scienza della Comunicazione a La Sapienza, con un’indimenticata lezione sulle modalità dell’intervista intesa come “cerniera dell’anima” sfruttando la prossemica di Hall; «bisogna entrare nella sfera intima dell’intervistato, io lo faccio piano, piano, sedendomi da dietro...», raccontava. E con lui si scioglievano i politici – Andreotti in primis - e i divi del cinema, gli intellettuali e la gente comune.

 

 

 

DAL SET ALL’ATENEO

Eppoi mi sovvengono le decine di libri, le milionate di articoli vergati da Maurizio fino all’ultimo respiro, sulle colonne del Messaggero prima e di Libero poi. Costanzo è stato per molti di noi giornalisti alla ricerca di un punto d’appoggio, un modello multitasking prima che esistesse il concetto stesso di multitasking. Affermava sempre di «avere due giacche: una per la cronaca e l’altra per lo spettacolo», ma in realtà era fornito di un guardaroba mediatico e autorale infinito. Maurizio era soprattutto, in Italia, l’uomo che aveva inventato la televisione. E non parlo solo del talk show che sublimò sulla Rai a reti unificate e poi a Mediaset con Bontà loro, Acquario o Grand’Italia. E non penso neppure a quei formidabili pomeriggi, da Buona domenica in giù in cui, sempre da pioniere, mescolava con levità l’intrattenimento con l’informazione.

No. Mi riferisco anche e soprattutto alla sua attività di comunicatore e consulente: per Francesco Rutelli sindaco di Roma, perla Pivetti presidente della Camera, per la Telecom che inaugurava La7. Fu consulente perfino del primo Grande Fratello di cui aveva intuito la portata rivoluzionaria. Costanzo - parliamoci chiaro- per quarant’anni dello storia italiana è stato un autentico centro di potere. Nel massimo del suo fulgore, tanto per non farsi mancare nulla, il 14 maggio 1993 subì l’attentato mafioso di via Fauro a Roma, dopo la maratona tv con Santoro su Libero Grassi: una Fiat Uno imbottita di novanta chilogrammi di tritolo esplose a breve distanza dallla Thema in cui Maurizio stava con la nuova moglie, Maria De Filippi.

 

 


Fino a metà degli anni Duemila, restò più inavvicinabile di mille presidenti del Consiglio; riuscii a intercettare il suo numero di telefono soltanto mentre, una quindicina di anni fa, parlottava con Tarak Ben Ammar, altro tycoon televisivo dalla onnipotenza sussurrata, simile a quella di Costanzo. Onnipotenza, la sua, che toccò zenith siderali ma scivolò anche in imprevisti nadir, come l’esperienza fallimentare col quotidiano L’Occhio (dopo aver diretto la Domenica del Corriere) e, quella giudiziariamente eclatante, con la P2 di Licio Gelli. Anche allora, come sempre gli accadde nella vita, Maurizio s’infiammò, arse e risorse dalle sue ceneri. Intendeva ogni nuova esperienza come una sorta di lavacro penitenziale che, al contempo, fletteva in una curiosità quasi infantile. La sua arma di distrazione di massa più sublime e terribile era, indubitabilmente il Maurizio Costanzo Show. Il programma più longevo del piccolo schermo che quest’anno, di anni ne aveva compiuti quaranta. Quaranta, Diomio. E si torna al Teatro Parioli, dietro le quinte del quale Costanzo istruiva preventivamente i suoi ospiti mettendoli tutti- dalla superstar americana, al ministro spocchioso, all’operaio diseredato - sullo stesso piano. Il Costanzo Show. È parte della mia giovinezza; l'ho goduto da fan bambino, da spettatore, perfino da ospite. Me ne sono abbeverato nella sua funzione di fucina di miti pop.

 

 

 

TALENT SCOUT

Quel retropalco era la democrazia del consenso, era come la livella di Totò: tutti uguali davanti alla telecamera e nel salottino rosso. Sarebbe banale elencare i talenti che lo scouting del Costanzo Show ha scoperto e lanciato da Vittorio Sgarbi e Platinette, da Valerio Mastandrea al povero Nik Novecento, da Giobbe Covatta alla Parietti al redivivo Gigi Sabani, a politici come Gianfranco Fini che qui venne sdoganato in un’indimenticabile Uno contro tutti. Ci fu un momento in cui, affascinato dal caleidoscopio di Mtv e della nuove tv, considerai l’ennesima edizione del talk di Maurizio, voluto dal direttore di Rete 4 Seba Lombardi, un reperto del passato, e feci l’errore di scriverlo. Maurizio, che quando ci si metteva aveva il suo caratteraccio, mi ripagò con un’imperlata di alti ascolti. Maurizio lascia una moglie, Maria la sua erede naturale, tre ex, due figli talentuosi e un cane. L’ho sempre pensato immortale. E forse, come tutti i giganti, immortale è rimasto davvero...

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