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Jack Nicholson, mito di un film che non doveva fare

L’anniversario di "Qualcuno che volò sul nido del cuculo", il capolavoro di Forman con il ribelle Nicholson, è la metafora di un mondo che non è cambiato
di Emiliano Dal Toro martedì 15 luglio 2025

3' di lettura

C’è qualcosa di profondamente attuale nel tornare oggi, cinquant’anni dopo, a Qualcuno volò sul nido del cuculo, capolavoro di Milos Forman tratto dal romanzo di Ken Kesey. Ambientato tra le mura di un ospedale psichiatrico dell’Oregon, il film racconta lo scontro tra un uomo libero, Randle McMurphy, e la burocrazia sadica incarnata dall’infermiera Ratched. Ma non è solo una storia di ribellione individuale: è una metafora feroce del potere, delle sue maschere “terapeutiche”, del modo in cui le istituzioni reprimono ciò che non riescono a controllare. Non stupisce che, per il cinquantesimo anniversario, Qualcuno volò sul nido del cuculo sia tornato in questi giorni nelle sale americane. Perché se il contesto è cambiato, il sistema di potere descritto da Kesey e Forman è più vivo che mai.
Quando uscì nel 1975, il film colse lo spirito disilluso dell’America post-Watergate.

Jack Nicholson, casualmente nel ruolo della vita (al suo posto doveva esserci James Caan) assieme al Jack Torrance di Shining, interpreta McMurphy con una vitalità travolgente: ladro, imbroglione, giocatore d’azzardo, ma profondamente umano. È lui a risvegliare i pazienti anestetizzati dell’istituto, a insegnare loro a ridere, a ribellarsi, a sentirsi vivi. Contro di lui si erge la glaciale Ratched, interpretata da Louise Fletcher, figura archetipica del potere silenzioso, paternalista, capace di distruggere senza alzare mai la voce. Uno scontro frontale tra istinto e norma, libertà e disciplina.

Qualcuno volò sul nido del cuculo è stato il secondo film nella storia del cinema a vincere i cinque Oscar principali (dopo Accadde una notte di Capra): miglior film, regia, attore, attrice e sceneggiatura. Ma il suo vero trionfo è simbolico. Forman, regista ceco fuggito dal regime comunista, filma con sguardo quasi documentaristico, in un vero ospedale psichiatrico, usando pazienti reali come comparse. Il risultato è un atto d’accusa contro la psichiatria istituzionale, contro la medicalizzazione del dissenso, contro ogni dispositivo sociale che opprime in nome del “bene comune”.

A cinquant’anni di distanza, il film conserva intatta la sua forza politica. Il manicomio è oggi ovunque: nelle scuole, negli uffici, nei social network. La Ratched sopravvive sotto altre forme: è il burocrate che applica il protocollo ignorando l’umanità, è il linguaggio politically correct dell’inclusione usato per escludere chi non si uniforma. McMurphy resta il folle che dice la verità, l’individuo che rifiuta di obbedire, anche a costo della propria vita. La sua lobotomia non riesce a spegnere il suo messaggio.

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GIGANTE SILENZIOSO
Il “Capo” Bromden, gigante silenzioso, lo raccoglie e fugge oltre le mura. È la speranza che sopravvive alla repressione. Oggi si parla molto di salute mentale, di inclusione, di benessere. Ma dietro molte parole resta intatta la tentazione del controllo. Qualcuno volò sul nido del cuculo ci ricorda che la libertà non è concessa: si conquista. E ha un prezzo altissimo. Vederlo oggi in sala, come stanno facendo negli Stati Uniti, non è solo un atto di memoria. È un gesto politico. Perché ci interroga ancora: chi sono i veri folli?

In Italia, il film arrivò nel 1976 e fu un successo anche al botteghino, venendo abbracciato da un pubblico trasversale. Nella stagione in cui si discuteva di Basaglia e della chiusura dei manicomi, il film divenne un punto di riferimento simbolico per chi chiedeva una radicale riforma del sistema psichiatrico. Ancora oggi viene proiettato nelle scuole, nelle università, nei convegni sul disagio mentale. E forse è anche per questo che, rivedendolo dopo cinquant’anni, si prova una fitta di nostalgia: non solo per il cinema che era, ma per un’epoca in cui essere liberi sembrava qualcosa di concreto, feroce, necessario.

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