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I cinquant’anni di un film mai cosÌ giovane

di Enrico Paoli venerdì 15 agosto 2025

3' di lettura

 Il 1975 non è stato solo un anno effervescente perla società italiana, in quella formidabile annata è stata approvata la riforma del diritto di famiglia portando così alla parità giuridica dei coniugi, ma è stato anche il momento in cui il cinema italiano ha perso l’età dell’innocenza. Il 15 agosto di 50 anni fa, allora l’estate era anche questo, fece irruzione nelle sale cinematografiche “Amici miei”, film pensato da Pieto Germi, ma realizzato da Mario Monicelli, per un’anteprima della stagione. Il successo di pubblico e di critica arriverà nell’autunno dello stesso anno. Ma quell’antipasto di celluloide, frizzante come un Prosecco Doc, fu davvero un’epifania di risate - amare certo - sostenuta dal trionfo dell’ironia e del sarcasmo, quest’ultime variazioni sul tema della narrazione non sempre decifrate al volo dai non toscani. Ma come per tutte le cose buone il palato deve elaborare i vari sapori, prima di emettere il giudizio.

Nonostante tutto ciò, o forse a ragione di tutto questo, che Amici miei fosse destinato a cambiare i connotati del cinema italiano lo si capì sin dalla prima visione. Le “zingarate”, il conte Mascetti, la supercazzola, la malinconica allegria del Perozzi o l’amabile cattiveria del Sassaroli, per non parlare delle poetiche figure del Necchi o del Rambaldi, rimatori in versi, sono diventati un patrimonio dell’umanità dal quale è impossibile affrancarsi, al punto da portare nel cuore, non solo la scena preferita, ma anche l’epica di un mondo senza tempo dove tutti sono protagonisti e comparse. E pure le figure scomparse sono vive. Con Amici miei tutto questo è succceso, riscrivendo la grammatica del cinema e della commedia all’italiana, consegnando agli archivi della storia del cinema (buoni per le repliche estive magari) i musicarelli degli anni sessanta e i poliziotteschi della stessa decade di Amici Miei. Per questo, a 50 anni esatti di distanza dalla prima ferragostana del 1975, Amici miei merita non solo la celebrazione della ricorrenza, ma la consacrazione definitiva nel partenone del nostro cinema, spostando film, regista nel punto più alto.

Il film, riavvolgendo il nastro, nacque da un’idea di Pietro Germi che, gravemente ammalato, ne affidò la regia e sceneggiatura all’amico Mario Monicelli. Il geniale regista ci aggiunse del suo, tramite i suoi protagonisti- il Conte Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), il giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), il professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) e il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete, Renzo Montagnani nelle versioni successive). Amici di scuola, di vita, complici nel mito delle zingarate. E la rivoluzione di Amici miei sta proprio nella coniazione di nuovi termini. Come per l’appunto la zingarata, simbolo di creatività ed evasione. O anche la “supercazzola” per ribadire un concetto pieno di parole che non portano a nulla, tutti entrati nel lessico comune e nel patrimonio della lingua italiana.


La pellicola fa rivivere un’Italia che oggi non c’è più. E proprio per riscoprire quei luoghi (dai bar oramai chiusi ai palazzi inquadrati) che l’Associazione Cult(urale) Conte Mascetti da ormai 10 anni propone dei tour sulle location della pellicola. Si passeggia dalla tomba di Adelina, «sposa ed amante impareggiabile», al mitico Bar Necchi (epica la scena con Augusto Verdirame) fino al binario 16 degli schiaffi alla stazione e il funeralone del Perozzi in Piazza Santo Spirito. Luoghi dell’anima e della memoria cinematografica dove perdersi è la cosa migliore da fare. Del resto «Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione», rammenta il Perozzi parlando del Necchi e della sua capacità di organizzare l’ennesimo scherzo alla vittima di turno. Vittime lo siamo un po’ tutti, solo il genio è cosa per pochi...
enrico.paoli@liberoquotidiano.it 

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