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Bobby Solo, le confessioni: "Mia mamma mi voleva parroco..."

di Leonardo Iannacci lunedì 22 settembre 2025

5' di lettura

«Mi puoi chiamare fra un’oretta? Sono alle prese con un marchingegno del motore diesel della mia Mercedes..».
Bobby Solo, 80 anni portati con una gagliardia unica, fa di tutto durante la giornata, persino il meccanico di precisione. Disturbiamo sempre volentieri questo magnifico ottuagenario perché ha una carica speciale, la stessa del 1964 quando una lacrima scendeva sul suo viso di 18enne timido («e un po’ imbranato», aggiunge lui). Roberto Satti, suo vero nome, dai banchi della seconda liceo classico era atterrato quell’anno sul palco del Festival di Sanremo e, visto che l’emozione non ha voce, la perse completamente: apriva bocca e non usciva nulla. Così fu costretto a esibirsi in playback e venne squalificato. Vinse Gigliola Cinquetti, ma Una lacrima sul viso vendette due milioni di copie: così nacque la leggenda di Bobby Solo che, al telefono, ci richiama attaccando Are you lonesome tonight, hit del suo idolo: Elvis Presley.

Come è andata questa estate da fresco 80enne? Lo ammetta, lei piace ancora.
«E perché dovrei essere un falso modesto? Ho fatto 36 serate con 4-5000 persone che mi ascoltavano e ballavano per tutte le due ore del concerto».

E quando attacca Una lacrima sul viso, il suo inevitabile marchio di fabbrica? Non si è stufato di cantarla?
«Per niente: l’ho appena incisa anche in lingua inglese. Tutto è iniziato con quella carissima lacrima e, in quel Sanremo del 1964, mi trovai in mezzo a leggende della musica internazionale come Paul Anka e Frankie Laine. In gara c’erano Gino Paoli, Giorgio Gaber, Tony Renis, Milva. Vi rendete conto cosa era il Festival in quegli anni? Ero tesissimo, alle prove mi uscì un rantolo e non ci fu nulla da fare. Ma il brano, dopo il Festival, ebbe un successo pazzesco e tutti, colleghi e discografici, conobbero quel 18enne con ciuffo da rockabilly».

Che, l’anno dopo, conquistò il Festival. Una rivincita colossale?
«Gli autori, tra cui Mogol, mi dissero: la lacrima dello scorso anno non ha vinto ma ti ha portato fortuna: ha venduto milioni di 45 giri, continuiamo con i pianti. Così mi cucirono addosso un’altra canzone sulla falsariga: Se piangi, se ridi, che stravinse. La sera della premiazione avevo la lingua felpata, balbettai solo un impacciato grazie e Mike Bongiorno, che presentava, mi strappò il microfono: ehi Bobby, è proprio vero, i cowboy sono di poche parole!».

Con Zingara ha concesso il bis nel 1969 quando il regolamento prevedeva l’esibizione duplice, in coppia con Iva Zanicchi.
«Gianni Morandi, mio amico vero, aveva l’etichetta “MiMo” con Franco Migliacci. Mi fece sentire alcuni provini tra cui Zingara. Mi piacque subito e gli dissi: “Gianni, con questa sbanco Sanremo”».

Lei è sempre stato considerato l’Elvis Presley italiano: la sua coerenza musicale è tuttora un marchio di fabbrica, vero?
«Dopo i fasti sanremesi c’è stato il revival degli anni ’50 e ’60 grazie a Red Ronnie, mio testimone di nozze. Con Little Tony abbiamo riproposto gli anni d’oro del rock’n’roll ma ora amo anche il soul, il jazz, il country americano».

Little Tony, un fratello di rock?
«Di sangue. A Sanremo ero arrivato, in quel 1964, con 10.000 lire in tasca che mi aveva dato mamma e Tony mi vide in un angolo un po’ affamato, si presentò e per tutta la settimana mi ha pagato ristoranti di lusso. Era un signore e mi contagiò con l’amore per le auto di lusso. Sa, ho speso una fortuna in Jaguar, Porsche e Buick».

Con 36 concerti in una sola estate lei si gestisce ancora bene...
«Faccio tutto da solo, senza manager visto che negli anni sono stato beffato da persone di cui mi sono maldestramente fidato. Ho il mio chitarrista, Valerio Marchetti, che mi aiuta. Negli ultimi anni ho inciso nuovi brani, molti dal vivo e non so cosa sia l’autotune».

Beh, avrà aumentato il suo tesoretto, ormai i soldi si fanno con i concerti.
«Ho un cachet basso che va da 7.900 a un massimo di 9.900 euro. Rispetto ad alcuni colleghi della mia generazione che sparano 25.000 o 30.000 euro a serata mi accontento ma faccio quel numero di show che, per la mia età, sono tantissimi».

Quanti dischi ha venduto in 61 anni, dal 1964 ad oggi?
«Dicono 57 milioni ma i soldi di questi 57 milioni di dischi non li ho visti tutti. Chissà in quali tasche sono finiti».

Senza la musica, la chitarra e il rock cosa avrebbe fatto Roberto Satti?
«Guardi, papà mi disse: o diventi un ingegnere o un medico. E mamma: no, dovresti fare il parroco. A 80 anni sono ancora qui che suono e canto rock’n’roll e blues. Ma ho trovato il tempo anche di farmi ribattezzare».

Prego?
«Sì, non ero certo che papà e mamma l’avessero fatto nel 1945, quando sono nato. Così, qualche anno fa, mi sono battezzato e per essere sicuro, ho rifatto anche la prima comunione e la cresima».

Il suo Dio (musicale) resta Elvis?
«Amo cantare le canzoni con la sua timbrica ma sto esplorando anche la grande musica blues e autori come Pete Seeger, John Lee Hooker, Tony Joe White. Ai giovani non dicono molto ma sono storia. Una grande cantante di gospel di quegli anni, Sister Rosetta Thorpe, mi ha inoculato la passione per il gospel, sa io sono molto credente».

Vero che, alcuni mesi fa, stava per morire sul palco?
«Eravamo a Pordenone, stavo tenendo il mio solito concerto di due ore quando sono svenuto, crollato a terra. Mio figlio di 12 anni ha detto. Papà è morto!».

Cosa era accaduto?
«Avevo preso una quantità enorme di antibiotici, non avevo mangiato per 36 ore e ho perso i sensi. Non ho visto più nulla. Pensavo sinceramente di essere passato all’altro mondo».

E torniamo a Sanremo, lei manca in gara dal 2003, possibile?
«Possibilissimo. Amadeus mi ha bocciato per cinque anni di seguito e Carlo Conti anche. Ora leggo, con stupore, che sarei nel cast del Festival 2026 insieme a Patty Pravo».

Ci andrebbe?
«Allora, premesso che non ho saputo assolutamente niente dalla Rai o dallo stesso Conti, mi piacerebbe ma alle mie condizioni. Ho una carriera e un’età, non mi farebbe dispiacere avere voce in capitolo».

In che senso?
«Vorrei presentare una canzone adatta allo zio Bobby attuale e l’idea c’è: un brano che racconta l’amore che nasce fra un ottantenne, quale sono, e una donna di alcuni anni più giovane. Si sono conosciuti in gioventù, non è mai accaduto nulla e l’attrazione è arrivata solo nella terza età».

Possibilità?
«Guardi che al Festival bisogna avere le maniglie giuste, comandano le major e, se non sei della loro cordata, ben difficilmente entri nel cast.
Non è sufficiente avere belle canzoni. Alla fine, al mio posto, so che ci andrà Fausto Leali».

Potrebbe provare con una canzone rap o trap.
«Per carità, non è certo nelle mie corde e, poi, quelle cose sono adatte alla lingua inglese e non a quella italiana».

Un rimpianto nella sua bella carriera?
«Forse non essere mai riuscito a sfondare sul mercato americano dove ero stato presentato come l’Elvis italiano».

Cosa farà da grande Roberto Satti?
«Cosa vuole che faccia zio Bobby? La cosa che gli è riuscita meglio: il cantante. E sa perché sono così orgoglioso di quello che ho messo insieme?
Perché sono stato, e sarò sempre, un uomo e un artista libero. Libero come il vostro giornale».

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