«La stand up comedy? La facevamo già negli anni 70 senza sapere che si chiamasse così... Se l’avessi saputo me la sarei tirata di più!» Enrico Montesano è tornato in scena. I suoi primi 80 anni, compiuti lo scorso mese di giugno, meritano non solo il giusto tributo ma un nuovo incontro con il pubblico che non l’ha mai dimenticato. Anzi. L’ha sempre seguito. Così è nato Ottanta...voglia di stare con voi che dopo l’esordio di successo a Trapani, in Sicilia, qualche settimana fa, lo rivedrà in scena in varie regioni italiane: dal tacco alla punta dello Stivale, passando ovviamente anche per Roma e Milano. Un viaggio tra il “com’era e il com’è”. Il tutto nello stile inconfondibile di Montesano, che mescola ironia, riflessioni personali e la sua straordinaria capacità di coinvolgere il pubblico che ha sempre sostenuto e seguito Enrico nei suoi racconti e percorsi. Col sorriso ma spessissimo (quasi sempre) anche controcorrente. Con la verve sua e delle sue maschere teatrali storiche, da Torquato il Pensionato alla Romantica Signora Inglese a Cocò e Dudù.
Enrico, che gusto ha questo ritorno in scena a 80 anni?
«Il gusto di un incontro più che di uno spettacolo. In Ottanta...voglia di stare con voi racconto quel che ho vissuto che poi è quello che abbiamo vissuto tutti, perché tutti siamo stati influenzati dagli eventi che hanno caratterizzato la nostra vita, dalle esperienze che abbiamo in comune. La parola è la protagonista. Raccontare la propria storia, del resto, significa raccontare anche quella degli altri, perché alla fine, aldilà delle differenze, abbiamo tutti le stesse aspirazioni, le stesse gioie, le stesse delusioni».
È un viaggio nella memoria personale e collettiva, dunque...
«Sì, perché i miei fatti personali spesso coincidono con quelli storici. Io mi tolgo il dente del giudizio e scoppia Mani Pulite: due infezioni, tutte e due dolorose. Mi diplomo geometra e crolla l’edilizia. È una specie di sfiga cosmica. Però, se la racconti bene, fa ridere. Il teatro serve anche a questo: a rimettere in ordine il caos».
Par di capire che non mancherà la satira, un genere a lei assai caro.
«Oggi è diventato un po’ più difficile farla...C’è più timore degli anni in cui c’era il cosiddetto pentapartito quando, mi pare, ci fosse meno preoccupazione... Sarà anche per questo che il varietà non si fa più».
Lei che rapporto ha con la politica?
«Non è il mio lavoro. Sono bravo a fare altre cose. Ma comunque resto un idealista. Sin volta che ho votato mi sono sempre sentito socialista...Poi, appunto, Mani Pulite e quelle ingiuste monetine mi hanno reso un socialista senza partito, come diceva Ignazio Silone, che si definiva anche un cristiano senza chiesa».
Lei è nato nel 1945. La generazione dei cosiddetti “figli della guerra”. Significa qualcosa?
«Io ho sentito i tedeschi rastrellare Roma dalla pancia di mia madre. Il rumore degli scarponi della Wehrmacht. Sono nato tra le macerie. Poi arrivò la ricostruzione, il boom economico, l’Italia che diventa la quinta potenza industriale del mondo. Negli anni Ottanta ho vissuto il mio momento d’oro, tra Fantastico, la commedia musicale moderna, gli dalla prima anni del boom, finché non è arrivato lo sboom. Anche questo fa parte del racconto, perché nessuna stagione dura per sempre».
Oggi che Enrico troviamo sul palco: più ironico, più combattivo o più sereno?
«Trovate un Enrico che si diverte. Racconto, osservo, rifletto. Mi piace stare con il pubblico che non mi ha mai abbandonato. Faccio queste serate per tenermi in allenamento, per divertirmi e per incontrare la gente. Il teatro è questo: contatto diretto, senza filtri, senza algoritmi».
Negli anni Ottanta è stata la tv a renderla popolarissimo. Oggi come la guarda?
«La televisione ti consacra, certo. Le idee, però, nascono nei piccoli teatri, come negli anni Settanta nei locali, al Folkstudio. Quello che manca oggi è la gavetta. I talent buttano i ragazzi nella mischia regalando un successo immediato ma effimero. Noi, invece, avevamo una sola emittente ma fare 13 milioni di spettatori era la norma. Oggi è cambiato tutto».
Oggi, però, è tornata anche in auge la stand-up comedy. Le piace?
«Ma certo! La facemmo noi per primi, solo che non lo sapevamo. Oreste Lionello, Pino Caruso, io stesso, facevamo monologhi in piedi, con un microfono e una luce. Era stand-up, solo che non aveva quel nome. Facevo monologhi sulla guerra dei Sei Giorni, su Sigonella, sull’Afghanistan. La gente rideva tantissimo già all’epoca».
C’è stato un suo show televisivo al quale può dire di essere più affezionato?
«Trash. Un’idea modernissima, piena di trovate. Con la scenografia di Gaetano Castelli che era una grande discarica. Era una trasmissione libera, intelligente, ma fu un po’ castrata. Peccato, perché era avanti rispetto ai tempi e tra l’altro fu l’ultima apparizione tv di Gabriella Ferri...Io l’avevo conosciuta ai tempi del primo Bagaglino, quello delle origini, di Vicolo della Campanella, più libertario, anarcoide, diverso da quello del Salone Margherita che definirei istituzionale».
Teatro che resta la sua vera grande passione. È così?
«Ho fatto dodici commedie musicali al Teatro Sistina. Dal ’76 al 2007. Rugantino, Beati voi, Il Conte Tacchia. Ma se ti allontani dalla tv sembra che non esisti. È un errore enorme, perché il teatro, ripeto, è il vero laboratorio della creatività».
Di recente ha portato in scena anche Il Marchese del Grillo a teatro. Che emozione è stata vestire i panni di un personaggio che ha il volto di Alberto Sordi?
«Davanti alla mia scrivania ho una foto di Alberto Sordi. Siamo nati quasi nello stesso palazzo alla Garbatella. Qualcosa ci lega. Il Marchese Del Grillo è un altro simbolo della romanità che ho sentito come un’eredità enorme...».
Dal cinema, però, ha detto di essersi sentito un po’ bistrattato. Perché?
«Tra il 1979 e il 1980 ho fatto tre film campioni d’incasso in un anno... Aragosta a colazione, Qua la mano, Il ladrone. Penso che almeno un David di Donatello l’avrei meritato. Evidentemente la commedia non veniva considerata abbastanza...seria. Quella è stata un’amarezza. Ma pure quella parte del gioco...».
Però in compenso Febbre da cavallo è diventato un evergreen assoluto...
«Quello era precedente. Era del ’76 e ancora oggi vive. Le battute di Pomata girano ancora oggi... Rappresenta sicuramente una rivincita. Ma del resto avevamo un grande regista come Steno che ci lasciava liberi pur tenendo il controllo. Quella libertà si sente ancora».
In quel film il suo Pomata fa coppia con Mandrake, ovvero Gigi Proietti. Che ricordo hai di lui?
«Un maestro. Una tecnica incredibile, una voce straordinaria. Eravamo due centravanti nella stessa squadra. Vivevamo una sana rivalità, avendo però lo stesso obiettivo. Raccontavamo una Roma che non c’è più, quella delle sale corse, delle domeniche popolari».
Recentemente ha ricevuto un premio alla carriera, dedicato a Monica Vitti. Un’altra grande attrice e sua grande amica.
«Quello di Monica è l’altro ritratto che ho sulla mia scrivania. È sempre con me. Una grande attrice, una donna straordinaria. La lunga malattia che l’ha portata via, durante la quale era viva senza essere più se stessa, è stata davvero una cosa troppo dolorosa...».
Un augurio per il 2026?
«Non faccio previsioni (Sorride). Ma solo un augurio di pace vera. Perché la guerra non fa bene a nessuno. La gente è già amareggiata. Meglio andare a teatro e uscirecon un sorriso. Come mi insegnò Pietro Garinei quando, dopo la caduta delle Torri Gemelle, ci trovammo a riproporre Beati voi. Superammo l’imbarazzo intitolandolo Malgrado tutto beati voi. Ecco, questo è il titolo perfetto, disse».