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"'Cesare deve morire' parla al cuore della gente"

A filo diretto con l'emozione
domenica 30 settembre 2012

3' di lettura

Roma, 26 set. (Adnkronos/Ign) - 'Cesare deve morire' vola a New York. L'ultima fatica di Paolo e Vittorio Taviani rappresenterà l'Italia nella corsa agli Oscar 2013. Un film, già vincitore dell'Orso d'Oro a Berlino, interpretato da soli uomini (detenuti o ex detenuti del carcere di Rebibbia) ma prodotto da donne. Che accolgono con entusiasmo la notizia della candidatura agli Academy Awards. Un progetto "non facile che ha richiesto l'unione di più forze, ma universale; sa arrivare al cuore della gente", commenta il produttore delegato della pellicola firmata Taviani, Agnese Fontana, condividendo la soddisfazione con le sue colleghe Grazia Volpi (produttore) e Donatella Palermo (produttore esecutivo). Paolo e Vittorio Taviani, o 'i ragazzi', come li chiama scherzosamente, "hanno una purezza nello sguardo che grazie alla loro esperienza diventa entusiasmo con la profondità che spesso la giovinezza non riesce ad avere", spiega Fontana a IGN, testata online del Gruppo Adnkronos, soffermandosi sul successo di un film che "parla al cuore degli spettatori" nonostante sia articolato sulla base di un testo teatrale, sia in bianco e nero e girato in carcere, "elementi che potrebbero scoraggiare ad andare al cinema". E invece la gente ci va, perché la tematica che viene affrontata "è assolutamente universale e aperta all'immedesimazione" vista con l'emozione, in primis, dei due direttori che l'hanno saputa "raccontare in modo così intimo". Quello che viene portato 'in scena', in fondo, "non è altro che quello che è stato vissuto in prima persona (dai registi, ndr) nel rapporto con i detenuti durante il laboratorio teatrale", spiega la produttrice (associata per Le Talee che ha collaborato con Kaos Cinematografica e Stemal Entertainment) aggiungendo che la scelta di un testo teatrale come 'Giulio Cesare' di Shakespeare non è casuale. "E' un testo universalmente riconosciuto e amato", dice Fontana, carico di tematiche "come la gestione del potere e la difficoltà della vita che non poteva non compenetrare e coinvolgere gli attori detenuti". Emozione circolare che parte dagli interpreti locali, passa attraverso gli occhi dei registi e arriva infine allo spettatore. Tradotto: successo internazionale. Il messaggio del film è racchiuso nella frase finale del docu-film che Agnese Fontana cita: 'da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione'. Ovvero spiega come "l'arte sia espressione alta dell'uomo, vera libertà anche in un luogo dove la coercizione è totale. Arte che ti porta a un dialogo interiore, a uno stato di coscienza e infine a liberarti 'fuori'". Un percorso, aggiunge la produttrice, che nei "più felici dei casi porta alla libertà e al reinserimento sociale". Come è stato per alcuni degli attori, ex detenuti di Rebibbia, che hanno partecipato al film. L'opera dei Taviani è stata prodotta con il contributo di Rai Cinema e distribuita da Sacher cui va il ringraziamento di Fontana. Un film partito "con idee forti ma con un budget ridotto. Un progetto in cui all'inizio si faceva fatica a credere nonostante la firma dei Taviani. Tra i primi a scommettere sulla carta - quando il film doveva essere ancora concluso- la distribuzione Sacher che devo riconoscere ha fatto un lavoro incredibile accanto alla produzione".

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