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Mondiali di atletica, 7 medaglie che danno fiducia per Los Angeles

Cala il sipario sui mondiali di Tokyo, azzurri sesti nella classifica a punti: il movimento punta con grandi aspettative alle Olimpiadi del 2028
di Carlo Galati lunedì 22 settembre 2025

3' di lettura

C’era un tempo in cui ai Mondiali di atletica l’Italia si aggrappava alla marcia per restare nel libro delle medaglie. La grande scuola azzurra - da Maurizio Damilano a Didoni, da Brugnetti a Stano, fino a Palmisano e Giorgi - teneva viva la tradizione, con la sensazione che oltre a quei chilometri scanditi dal rumore dei passi non ci fosse molto da festeggiare. E gli ori?

Sempre grazie ai marciatori e a atleti come Fiona May, poi la traversata del deserto: dopo Giuseppe Gibilisco a Parigi 2003 con l’asta, abbiamo atteso diciannove anni, fino a Eugene 2022, per rivedere il tricolore sul gradino più alto grazie alla marcia di Massimo Stano. Poi, finalmente, la stagione dei sorrisi: Tamberi oro a Budapest 2023, Furlani oro a Tokyo 2025.

Nel mezzo le gioie olimpiche di Tokyo. Da quell’attesa si è passati a un Mondiale che segna una svolta. A Tokyo l’Italia ha conquistato sette medaglie-1 oro, 3 argenti e 3 bronzi - piazzandosi sesta nel medagliere per punti. È il miglior risultato di sempre, non solo per la quantità, ma per la distribuzione: non più un settore solo, ma più specialità capaci di arrivare fino al podio. È la fotografia di un movimento che cresce in larghezza e profondità.

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Il titolo mondiale di Mattia Furlani nel lungo (8,39) è il simbolo di una generazione che non ha paura di misurarsi con i giganti. A vent’anni ha saputo gestire una finale con freddezza da veterano. L’Italia non si è fermata lì: Nadia Battocletti ha messo insieme un argento nei 10.000 e un bronzo nei 5.000, Antonella Palmisano ha riportato la marcia sul podio con l’argento nella 20 km, Andrea Dallavalle ha centrato il secondo posto nel triplo, Iliass Aouani è salito sul terzo gradino nella maratona e Leonardo Fabbri ha completato il bottino con il bronzo nel peso. Accanto alle medaglie, tanti finalisti e semifinalisti: dai giovani come Pernici e Riva ai già noti come Arese e Simonelli. È questa base larga a fare la differenza, perché certifica continuità e prospettiva.

Il paradosso è che questo record di podi sia arrivato senza le firme dei tre campioni più attesi: Jacobs, Tamberi e Diaz. Jacobs, pur in crescita, si è fermato in semifinale nei 100 ma ha dato cuore in staffetta; Tamberi ha vissuto un anno complicato ed è rimasto lontano dai suoi standard; Diaz ha pagato una pubalgia fastidiosa. A loro si aggiungono le giornate storte di Larissa Iapichino e l’infortunio che ha fermato Stano. Eppure il movimento non si è piegato. Anzi, ha trovato risorse altrove, segno che il ricambio è concreto.

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Meno brillante la velocità, che ha segnato il passo. Le staffette non hanno saputo replicare i fasti più o meno recenti tra olimpiadi e mondial. Il quadro va analizzato con lucidità: la sfortuna c’è (leggasi infortuni), ma serve anche una gestione più attenta dei carichi, un controllo centralizzato che consenta di arrivare alle grandi rassegne con gli atleti pronti, non ultimo chiarire i rapporti interni. L’eco del caso Jacobs/Tortu sembra non essere ancora definito del tutto. Il bilancio finale, comunque, non ammette dubbi: l’Italia è entrata stabilmente nella seconda fascia mondiale, quella che non guarda più con timore alle grandi potenze. Per salire al livello successivo servirà che la velocità torni a produrre finalisti e che i big ritrovino la loro dimensione. Il presente però è già un patrimonio: sette medaglie, un oro pesantissimo, una squadra che si allarga.

La conferma è chiara: l’atletica italiana non vive più di exploit isolati, ma di una crescita strutturale. Ora l’orizzonte diventa Los Angeles 2028: lì passerà l’esame più difficile, quello olimpico, perché l’obiettivo resta sempre lo stesso, trasformare un movimento solido in un’Italia che sappia scrivere la sua storia anche all’ombra dei Cinque Cerchi.

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