L’obiettivo massimo (sì, massimo) è stato centrato, e questa è la notizia più importante. Ma il vero significato della vittoria dell’Italia contro Israele non risiede nei tre punti, né nella qualificazione ai playoff. Risiede nel modo, nel clima, nella finalmente matura accettazione del nostro status da squadra minore, da Nazionale che non può ambire a un pass diretto per i Mondiali. Per la prima volta, dopo due approcci fallimentari (eufemismo), arriviamo agli spareggi in modo diverso perché li guardiamo in modo diverso. Non li vivremo come una penitenza immeritata, come un’onta da subire con fastidio, ma come un passaggio obbligatorio. Se Gattuso riuscirà a trasferire l’idea che sono addirittura una conquista, saremo ancor più pronti, e di fantasmi ne vedremo meno. È una bella e necessaria presa di coscienza collettiva. Questa prospettiva ci aiuta a trovare il lato positivo della serata surreale di Udine: è stata, paradossalmente, un’alleata preziosa.
L’atmosfera quasi pandemica, con lo stadio mezzo vuoto e il disinteresse generale verso la partita, è stata un inaspettato test psicologico. Ha costretto la squadra a trovare le motivazioni dentro sé stessa, senza il traino del pubblico, allenandola a quel clima pesante e solitario che inevitabilmente si respira nelle notti da dentro o fuori dei playoff, anche se una partita si giocherà in casa, magari addirittura due. D’altronde anche nel 2017 contro la Svezia il ritorno fu al Meazza, ed era a Palermo la semifinale degli ultimi spareggi contro la Macedonia. In quei casi, il fattore campo è un boomerang, soprattutto per come viviamo la Nazionale: è la squadra che deve trascinare gli italiani, non è mai stato il contrario. È stato dunque un utile allenamento alla solitudine, un’anteprima di ciò che verrà.
Detto questo, se una critica di campo va mossa a questa serata, è forse per un eccesso di prudenza da parte di Gattuso. Dopo aver trovato contro l’Estonia un 4-4-2 interessante, dall’aspetto vintage ma dalla vocazione innovativa, il ct si è subito rimangiato la parola. Per questa partita ha scelto un 3-5-2 in cui dichiaratamente non crede, rischiando di perdere un pezzo di credibilità in caso di risultato negativo. Una scelta dettata dalle folate offensive israeliane che ci sfuggirono di mano all’andata, ma che non ha tenuto conto delle buone risposte della partita in Estonia. E questo riguarda anche Raspadori che da esterno aveva mostrato ottime cose, mentre da attaccante delude e infatti viene sostituito all’intervallo per Pio Esposito che ripristina il vero “attacco a due”, punto di ripartenza di questa nuova Italia. È una questione di messaggi impliciti che il ct deve trasferire attraverso le scelte: trasformare la prudenza in paura è un attimo.
E la paura è la peggiore avversaria possibile nei playoff. Durante il primo tempo si vedeva Gattuso sbracciare, richiamare tutti indietro alle prime avvisaglie di ripartenza avversaria, in preda a un’ansia quasi febbrile che rischia di avvolgere la squadra e di non farle bene nelle partite da dentro o fuori. Non si può pretendere che Donnarumma pari tutti i cattivi pensieri, anche perché potrebbe esserne pervaso pure lui. La squadra deve poter contare su poche ma chiare certezze che si possono costruire solo dando continuità ad alcune precise scelte. Ecco dunque il bilancio. Da un lato, la maturità psicologica: abbiamo finalmente accettato la nostra dimensione, quella di una buona squadra che deve lottare per ogni gol. Dall’altro, la necessità di non tradire le proprie intuizioni tattiche. Ora Gattuso ha due partite per trasformare la dimensione minore e le intuizioni in punti di forza. Solo così possiamo sopravvivere ai playoff.