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Il "Numero Zero" di Umberto Eco Così insulta i berlusconiani

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Ignazio Stagno
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Ancora una volta, quella narrata da Umberto Eco è una realtà in cui il vero si confonde con il falso e in cui ciò che potrebbe essere autentico si rivela, a un certo punto, erroneo, inesatto, fallace. E viceversa, in una latitanza assoluta di bussole e punti di riferimento. È così anche nel settimo romanzo dello scrittore-semiologo, la cui uscita in pompa magna è prevista per il prossimo 9 gennaio, ma che Libero ha letto in anteprima. In Numero zero (Bompiani, pp. 222, euro 17) una sola cosa risulta certa e indiscutibile, quasi un'ancora a cui Eco stesso pare aggrapparsi per non naufragare a sua volta nel proprio erudito e beffardo nichilismo: l'inattendibilità e la cialtroneria del giornalismo italiano non progressista. Di nulla si può davvero esser sicuri, secondo il professore, e tutto può - più o meno a buon diritto - venir messo in questione, ma almeno di un fatto non è lecito dubitare: chi, in Italia, pratica il giornalismo ma non è di sinistra è inattendibile. Anzi, è in malafede. È questo, a ben vedere, il tema fondamentale di Numero zero, un romanzo - che è poi molto più un saggetto polemico, un pamphlet, che non un romanzo - ambientato a Milano tra l'aprile e il giugno del 1992, quando lo scandalo di Tangentopoli è esploso da poco e sta per deflagrare. Nel libro si racconta dell'iniziativa apparentemente bizzarra di un ambizioso imprenditore, il Commendator Vimercate (descritto come un parvenu e, tra l'altro, possessore di emittenti televisive commerciali), il quale affida a uno spregiudicato giornalista di sua fiducia, tal Simei, l'incarico di tirar su una piccola redazione con cui realizzare, nell'arco di un anno, vari numeri zero di Domani, un giornale fittizio - che forse in futuro uscirà davvero e forse no, ma che è bene si pensi uscirà sicuramente - tramite il quale mettere sotto pressione (grazie ai dossier e alle scottanti rivelazioni contenuti nei numeri zero di cui sopra, da far circolare fra le persone giuste) i salotti buoni e i poteri forti. Allo scopo di entrare a farne parte. Al gruppo di sei redattori, raccattati da Simei tra professionisti falliti e dalle velleità inappagate (e a tutti quanti i quali Eco assegna, giocosamente, cognomi che corrispondono ai nomi di font editoriali), appartengono anche un certo Colonna, giornalista cinquantenne con alle spalle un matrimonio sbagliato e quale unica compagna la consapevolezza di essere un perdente, e la quasi trentenne Maia Fresia, un passato da collaboratrice di riviste di gossip, unica donna e anche unica coscienza critica dello staff (è lei la sola a mostrarsi insofferente verso il giornalismo canagliesco di Simei). Tra i due nasce del tenero e così Colonna svela alla ragazza quale sia il suo (di Colonna) effettivo ruolo nell'ambito dell'operazione Domani: scrivere su questa singolare esperienza un libro che un giorno, qualora lo ritenesse utile, Simei pubblicherà a proprio nome: «Naturalmente non posso escludere che alla fine l'editore decida che il giornale debba uscire davvero», spiega Simei a Colonna, «ma a quel punto l'affare diventerà grosso e mi domando se vorrà ancora che me ne occupi io. (…) Così mi preparo: se tutto va a monte, pubblico il libro. Sarà una bomba e mi renderà una cifra in termini di diritto d'autore. Oppure, ma si fa per dire, qualcuno non desidera che lo pubblichi e mi dà un tot. Esentasse». Spicca poi, tra i colleghi di Colonna, Romano Braggadocio, accanito cospirazionista, il quale mette a parte Colonna di una sua elaborata teoria che, partendo dall'uccisione di Mussolini (per Braggadocio mai avvenuta: a morire sarebbe stato un sosia del Duce), prova a spiegare alcuni dei grandi misteri italiani (dalla strategia della tensione al delitto Moro) e perfino l'insorgere della Guerra Fredda. È attendibile quanto ricostruito da Braggadocio? Eco, che per bocca di questo personaggio si abbandona a lunghissime digressioni storiche e pseudo-storiche che hanno ben poco di propriamente narrativo, è notoriamente uno scettico, e la sensazione è che di tanta dietrologia si faccia ancora una volta beffe. Ma il vero sarcasmo il professore lo riserva a quella sentina di nefandezze che è il «giornalismo di destra» rappresentato da Simei. Il quale strologa a capocchia sull'avvenire dei telefoni cellulari («È una moda destinata a consumarsi nel giro di un anno, massimo due»), prepara dossieraggi sui giudici sgraditi e rende un indiretto omaggio alla moralità del giornalismo progressista («Se si parla della morte di Falcone si deve parlare di mafia. (…) Ma per ora non siamo obbligati a occuparci di queste miserie, e le indignazioni si lasciano ai giornali di sinistra»). Insomma, in questo romanzo che più che a un romanzo assomiglia - colto, talora brillante e sempre fazioso com'è - a una raccolta di «Bustine di Minerva», e in cui tutti i personaggi inspiegabilmente parlano in modo dotto e a colpi di raffinate citazioni, Eco offre ai suoi lettori un insperato appiglio. Il mondo è brutto e la corruzione delle coscienze dilaga, ma se ci si vuol sentire migliori basta un semplice esercizio, osservare le malefatte della vil razza dannata per antonomasia: i giornalisti (o meglio, gli scribacchini) delle testate di centro-destra... di Giuseppe Pollicelli

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