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L'Occidente e il fascino eterno della frontiera

È sempre un punto in cui la mappa finisce. Una linea di polvere che separa il noto dall’ignoto, l’ordine dal caos, la legge dal deserto
di Francesco Musolino lunedì 17 novembre 2025

4' di lettura

È sempre un punto in cui la mappa finisce. Una linea di polvere che separa il noto dall’ignoto, l’ordine dal caos, la legge dal deserto. È lì che nasce il romanzo di frontiera, una delle grandi narrazioni dell’immaginario occidentale: fatto di praterie, corsa all’oro, nativi americani e uomini crudeli. Ma non si tratta solo di cavalli, pistole e duelli al tramonto. La frontiera è una soglia morale, un confine dell’anima. È il luogo in cui la civiltà arretra e affiora ciò che resta dell’essere umano quando ogni certezza si sgretola: il punto in cui l’Occidente smette di essere una promessa e diventa una domanda.

Nella Trilogia della frontiera, Cormac McCarthy ha traC’ sformato il western in un’epopea metafisica. I giovani cowboy di Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura non cercano gloria, ma senso. Cavalcano verso un orizzonte che arretra di continuo, inseguendo un’innocenza perduta e un ordine morale che non esiste più. In Meridiano di sangue, la sua scrittura diventa crudele e solenne come una liturgia: il West non è più uno spazio da conquistare, ma un tempo che muore; il sangue non è spettacolo, ma linguaggio sacro. McCarthy riscrive la frontiera come parabola della fine: la civiltà che avanza non redime, ma divora ogni cosa.

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Prima di lui, John Williams aveva già scardinato il mito americano. In Butcher’s Crossing (Fazi editore), il giovane Will Andrews, dopo tre anni a Harvard, parte verso il Far West in cerca di libertà e scopre che l’Ovest è abitato da uomini duri, predatori, in cerca solo di un modo per fare soldi o per scialacquarli. Niente eroismo, nessun ideale: solo il rumore del vento e il sangue degli animali massacrati per profitto. Williams smontala retorica dell’avventura e mostra la nascita di un capitalismo primitivo, in cui la natura è risorsa e l’uomo, strumento. È il rovescio del sogno americano (divenuto anche un film con Nicolas Cage).

Con Michael Punke, il mito torna alla carne. In Revenant la frontiera diventa lotta per la sopravvivenza: neve, fame, corpi spinti oltre ogni limite. Hugh Glass, un cacciatore di pellicce abbandonato dai compagni (interpretato da Leonardo Di Caprio al cinema), non cerca vendetta ma la propria umanità. Il crinale sposta la soglia nel Novecento, quando l’America ha già conquistato tutto ma continua a combattere contro sé stessa. Punke racconta la fine dell’epopea: l’uomo non espande più il suo mondo, ma difende l’ultimo lembo di umanità. È la lotta perla propria dignità, come i grandi racconti a lungo dimenticati di Dorothy Johnson (pubblicati da Mattioli1885), testi che hanno ispirato grandi film - fra cui L’uomo che uccise Liberty Valance – con il merito di aver recuperato un fiero sguardo femminile in un mondo tradizionalmente macho.

E c’è Larry McMurtry capace di umanizzare il mito. Con Cavallo Pazzo – appena pubblicato da Einaudi tradotto da Gaspare Bona – lo scrittore texano restituisce voce ai nativi, ribaltando lo sguardo della conquista: il capo Sioux diventa simbolo di un mondo perduto, cancellato dall’avanzata della Storia. Ma nel suo libro più celebre, Lonesome Dove, McMurtry racconta l’altra faccia del sogno americano: la fine della frontiera e l’inizio dell’America. I vecchi ranger che attraversano un Texas già cambiato non sono eroi, ma uomini stanchi, testimoni di un tramonto inevitabile. La frontiera si chiude e resta solo la nostalgia di ciò che è stato.
Oggi, la frontiera continua ad affascinare perché non racconta più “solo” la prateria americana, ma ogni limite: tra Nord e Sud, umano e tecnologico, vita e sopravvivenza. Il romanzo di frontiera contemporaneo parla del margine come destino, dell’erranza come condizione.

Ne è un esempio italiano Daniele Pasquini, che con Selvaggio Ovest (NN Editore) trasporta il mito nelle campagne toscane, trasformando il West in parabola universale di amicizia, perdita e redenzione. Il suo è un “western mediterraneo”, dove la frontiera non separa popoli ma generazioni, e l’avventura diventa modo per ritrovare la propria origine. Come ha fatto anche Omar Di Monopoli in Uomini e cani (Adelphi), portando l’azione ancora più a Sud, in una Puglia oscura, tra sangue e onore, rovistando nelle tenebre dell’uomo senza alcuna salvezza possibile.

Voltata l’ultima pagina, sotto la polvere e il sangue resta una sola domanda, la più antica: che cosa significa essere uomini? Il romanzo di frontiera ci parla di libertà e colpa, di natura e destino, di solitudine e pietà. Restituisce il valore del limite, la lentezza del viaggio, la dignità della sconfitta. È la nostra mitologia laica: un’eco del sacro in un tempo senza dèi, un modo per tornare alla nudità originaria della vita. Ogni frontiera, reale o simbolica, racconta un passaggio. Ed è lì, in quel lembo di polvere tra il mondo che finisce e quello che inizia, che la letteratura continua a trovare la sua voce più vera.

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