Si è parlato molto, nelle ultime settimane, della presunta iniquità generata nel nostro sistema fiscale dall'allargamento dell'aliquota piatta, la flat tax, per gli autonomi. Così come si è polemizzato assai sulla stretta relativa al reddito di cittadinanza o sulla riforma del bonus App18 per la cultura, due misure finanziate dalla fiscalità generale. Prima di schierarsi contro o a favore delle novità introdotte dalla legge di bilancio bisognerebbe conoscere bene l'attuale struttura del nostro welfare e della tassazione del reddito, che di equo hanno ben poco. Tanto per cominciare bisogna sapere che nel 2020, ultimo anno di cui sono disponibili le dichiarazioni tributarie degli italiani, sono stati necessari 122 miliardi per la spesa sanitaria, 144 per l'assistenza sociale e altri 11 per il welfare degli enti locali. Il conto complessivo è di 278 miliardi. Per pagarlo si è reso necessario utilizzare tutte le imposte dirette Irpef, addizionali comprese, quelle Ires, quelle Irap e anche oltre 50 miliardi di imposte indirette. Come viene scaricato il peso sui singoli contribuenti? Concentriamoci sull'Irpef, che da solo porta in dote la fetta principale del gettito: 164 miliardi.
Ebbene, secondo i recenti calcoli fatti dal Centro studi fondato da Alberto Brambilla, Itinerari previdenziali, circa 20 milioni di italiani guadagnano zero o così poco che neanche presentano la dichiarazione dei redditi. Altri 10 milioni la presentano ma non pagano un euro di tasse. Il risultato è che a versare l'Irpef sono soltanto in 30 milioni. Metà della popolazione vive a scrocco dell'altra? E' ancora peggio. Quasi l'80% dei contribuenti, infatti, dichiara redditi fino a 29mila euro e corrisponde solo il 27,5% di tutta l'Irpef. In sostanza, versa una quantità di imposte che non è neppure sufficiente a coprire la spesa delle principali funzioni di welfare. Il che significa che anche questa fascia di contribuenti è parzialmente a carico degli altri. Ma se nessuno sgancia i quattrini, direte voi, come fa lo Stato a far quadrare entrate e uscite? A parte il fatto che quasi mai quadrano, visto che il bilancio si chiude sempre in deficit, qualcuno che sborsa c'è. Chi guadagna sopra i 100mila euro, ad esempio, rappresenta solo l'1,21% dei contribuenti, ma versa quasi il 20% dell'Irpef. Abbassando un po' l'asticella, e considerando la quota di italiani che guadagna sopra i 35mila euro lordi all'anno, Itinerari previdenziali ci spiega che il 13% degli italiani che presentano la dichiarazione versa il 60% dell'imposta complessiva sul reddito delle persone fisiche. Si tratta di circa 5 milioni di persone.
Ricapitoliamo: gran parte del welfare è finanziato dall'Irpef, la metà degli italiani non la paga per niente, altri versano meno di quello che ricevono in servizi, mentre 5 milioni, il 13% dei contribuenti (che poi sarebbe meno del 9% degli italiani) si fa carico di sborsare quasi due terzi dell'intero gettito, mantenendo di fatto tutti gli altri. E' una equità che va preservata? Difficile a dirsi. Così come è difficile pensare che si possano continuare a sfornare bonus, sussidi e sostegni che appesantiscono ulteriormente il fardello di quel pugno di cittadini che non solo si finanzia da solo i servizi pubblici che ricevono, ma scuce anche il denaro necessario a mantenere in piedi quelli degli altri.
A questo punto si potrebbe sostenere che in un Paese dove la ricchezza, tra quella finanziaria e quella immobiliare, ammonta a circa 10mila miliardi e dove i poveri certificati dall’Istat risultano essere “solo” 5,5 milioni, i conti non tornano. Come è possibile avere 30 milioni di residenti che non pagano un euro di tasse sul reddito? Con un tax gap certificato nell’ultima relazione del governo sull’evasione fiscale al 18,4% e una quota di balzelli non versata stimata intorno ai 100 miliardi non si può davvero fingere che una bella fetta del problema non sia nella elevata propensione al nero degli italiani. Detto questo, la sostanza cambia poco. Ed è che tutte le misure assistenziali di cui molti invocano il rafforzamento alla fine vanno a pescare sempre nelle stesse tasche, alimentando una redistribuzione forzata delle risorse che non solo è ingiusta ma neanche è percepita. Basti pensare, ad esempio, che solo per pagare la spesa sanitaria per i primi due scaglioni di reddito, fino a 15mila euro, la differenza tra l’Irpef versata e il costo della sanità ammonta a 51 miliardi. La differenza sale a 58 sommando i redditi da 15 a 20mila euro.
Complessivamente, calcola Itinerari previdenziali, in Italia la redistribuzione totale è pari a 219 miliardi su circa 555 di entrate. In pratica viene redistribuito il 40% di tutte le entrate e quasi il 100% delle imposte dirette. Soldi che finiscono in tasca ai redditi più bassi o nulli, spesso con scarsi o inesistenti controlli. “Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’enorme platea di beneficiari non si rende neppure conto”, spiega Brambilla. Ed ecco il risultato: “Questa progressività occulta e pericolosa”, spiega Brambilla, “penalizza quanti contribuiscono regolarmente e incentiva i cittadini a evadere o dichiarare meno così da non rinunciare a prestazioni sociali o altre agevolazioni da parte di Stato, Regioni e comuni”. Insomma, siamo propri sicuri che sia la flat tax il problema di questo nostro fisco perfetto, campione di equità e giustizia? E siamo altrettanto sicuri che disboscare un po’ la foresta dei sussidi cresciuta negli ultimi anni a dismisura metta veramente a rischio un patto sociale costruito su così solidi principi di trasparenza e solidarietà?