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La grande fuga dalla Borsa di Londra

di Dario Mazzocchi martedì 17 dicembre 2024

3' di lettura

L’attrattività per i mercati finanziari è un asset fondamentale e Londra ha smarrito la sua. La conferma arriva direttamente dalla City dove si contano ormai ottantotto grandi compagnie che hanno abbandonato la borsa, il London Stock Exchange, per trasferirsi sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico, a New York. Dove, a proposito di attrattività, sono invece in attesa che il neoeletto presidente americano Donald Trump metta mano al suo piano economico di taglio alle tasse. È il più grande esodo dal 2009, quando la crisi economica non faceva alcun sconto a gruppi finanziari, banche e imprese, e l’ultima realtà ad aver annunciato il trasferimento è stata Ashtead, società che si occupa di leasing di attrezzatura industriali ed edili, con un valore di 23 miliardi sterline, quasi 28 miliardi di euro.

Ma nella lista compaiono anche Flutter, un gigante del settore delle scommesse – che nel Regno Unito sono patrimonio popolare-, con i suoi 39 miliardi di sterline e Just Eat, il gruppo di delivery che si è tolta da listino due settimane fa. «Sempre più compagnie britanniche stanno considerando di spostare le loro quotazioni negli Stati Uniti e il gap valoriale si sta allargando», sottolineava un report pubblicato venerdì da Goldman Sachs e ripreso dal Financial Times. La bilancia è nettamente in passivo, dato che a fronte di chi se ne va sono soltanto 18 le società che si quoteranno al Ftse, l’indice azionario londinese. Xavier Rolet, che ha guidato il London Stock Exchanhe tra il 2009 e il 2017, ritiene che l’attività di scambio stagnante a Londra sia una «vera minaccia» che porterà altre aziende britanniche a cercare miglior sorte all’estero, confermando la previsione di Goldman Sachs.

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La capitale del regno è «profondamente non competitiva» e il motivo è che ci sono altri centri che invece sono affamati, New York tra tutte. I timori che con la Brexit la borsa inglese sarebbe diventata una landa desolata si sono dimostrati infondati nell’immediato: ad un primo contraccolpo dovuto all’esito inaspettato del referendum del 2016, seguirono messaggi più rassicuranti da parte di alcuni governi come quello di Boris Johnson che puntava a fare di Londra un polo finanziario con meno regolamentazioni e paletti.

Alcune società europee valutarono poi di tornare nei listini continentali, con il presidente francese Emmanuele Macron in prima fila per ospitarli sulla piazza di Parigi: un sogno svanito, perché il flusso di capitali aveva già preso la direzione di Wall Street. Un movimento che non si arresta e che ora coinvolge direttamente la City. Più fosche le previsioni legate invece al progetto economico del governo laburista in carica, che ha già annunciato ad ottobre l’aumento delle tasse sulle plusvalenze (Capital Gain) da investimenti finanziari e immobiliari. Una mossa che ha spinto diversi investitori a considerare un trasferimento in altri lidi e che per molti osservatori potrebbe tradursi in un approccio troppo socialista per chi opera sui mercati finanziari. Per la cronaca, tra le domande più frequenti sottoposte a Google ora compare «Come evitare la tassa sulle plusvalenze nel Regno Unito per le imprese?».

Tagli fiscali e deregolamentazione sono state al contrario due parole chiave del programma elettorale di Trump non solo per i contribuenti, ma anche per i settori che includono l’industri bancaria e le criptovalute. Il precedente racconta che durante il suo primo mandato l’S&P 500, l’indice azionario statunitense più importante, è aumentato di quasi il 70%, trainato dal settore tecnologico. L’occhio di riguardo della prossima amministrazione repubblicana è certificato dalla nomina a segretario del Tesoro di Scott Bessent, investitore e gestore di hedge fund. Wall Street chiama e Londra non può resisterle.

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