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L'industria sta pagando passaggi generazionali dagli effetti disastrosi

Automobile, elettrodomestici, siderurgia e in parte abbigliaento sono scomparsi o in ambasce: ecco perché
di Bruno Villois sabato 27 settembre 2025

2' di lettura

Produzione industriale e attrattività, sia turistica che di business, dovrebbero essere i due tratti portanti del sistema socio-economico Italia. Ad essi si affianca con pari merito l’agricoltura. Peccato che solo due delle tre sono in spolvero, la prima, l’industria, che ha costituito il principale pilastro per sviluppo, occupazione, e investimenti rallenta e perde pezzi.

Automobile, elettrodomestici, siderurgia e in parte abbigliamento sono o scomparsi, o in ambasce, o finiti in mani estere, con produzioni delocalizzate in paradisi industriali solo per gli azionisti, dove costo del lavoro, sicurezza e stato sociale sono concetti sconosciuti. Viceversa il farmaceutico sta vivendo la miglior stagione di sempre grazie all’avvedutezza del capitalismo famigliare che lo possiede, che a differenza del settori in difficoltà, investe parte rilevante dei profitti, paga tasse e contribuzioni previdenziali in Italia e mantiene i quertiergenerali sul suolo italico, anche quando, come per Menarini, si è acquisita, con risorse finanziarie proprie, una impresa statunitense che pesa e peserà molto positivamente su conti e futuri investimenti.

È bene ricordare che la produzione industriale in Italia è in costante calo da nove trimestri, che l’aumento della cassa integrazione è in crescita, che il capitolo assunzioni è frenato anche dalla difficoltà di trovare personale specializzato e in ultimo, ma non certo per importanza, che il capitalismo industriale famigliare italiano, in maggioranza si è convertito alla finanza, per lo più estera e sovente ha anche trasferito le proprie sedi sociali in altri paesi europei, in cui si pratica una tassazione più conveniente. La base di partenza di questa evoluzione è stata la scomparsa delle generazioni che avevano determinato l’espansione e le fortune, i cambi generazionali i cui componenti erano e sono totalmente disinteressati al rischio e quindi a fare imprese industriali. Il tutto condito da un assenza di politica industriale, ormai da oltre un quarto di secolo, e da una politica sindacale ferma gli anni Settanta, che non ha saputo spingere sulla produttività per far ottenere migliori risultati alle imprese e al reddito del capitale umano. Senza dimenticare un istruzione - formazione scolastica inadeguata alla domanda delle imprese.

Il guaio è che da questo quadro tutt’altro che incoraggiante dipende, in gran misura, la crescita del prodotto interno lordo, la sorte dell’occupazione e di conseguenza di una raccolta previdenziale inadeguata a sostenere un rapporto attivi-pensionati che si avvicina alla parità, mentre sarebbe opportuno che non si discostasse dal livello 140-150. Il governo è stato brillante per la politica finanziaria, mentre per quella industriale segue il corso degli esecutivi che lo hanno preceduto. Eppure un ulteriore calo delle produzioni industriali e di tutte le componenti che lo consentono e da cui derivano, sarebbe una palla al piede gigantesca che impedirebbe al Pil di risalire in maniera stabile. Attrattività e agricoltura sono prossime alla loro massima espansione in termini economico-finanziari, hanno ancora spazio per l’occupazione, ma per riuscirci debbono investire bendi più di quanto hanno fatto finora. Serve un rilancio industriale stimolato da operazioni fiscali e contributive pubbliche, assieme al ritorno in campo del capitalismo famigliare.

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