Cosa unisce la Banca d’Italia alla Cgil, l’Istat alle tute blu, la Corte dei conti ai Cobas? Sembrano mondi lontanissimi, ma in realtà hanno in comune il filo rosso di una visione progressista della società, uno schema precompilato, rigorosamente di sinistra, in varia gradazione, che arriva fino al neo -comunismo in versione Mamdani. Quando Bankitalia boccia la legge di bilancio e lamenta il fatto che favorisce “i ricchi”, evidentemente c’è qualcosa che non va, la teoria keynesiana che a via Nazionale ha trovato terreno fertile negli allievi dell’economista Federico Caffè, viene applicata alla lettura della manovra con conseguenze surreali. La manovra non deve per forza redistribuire il reddito, né mandare in onda “anche i ricchi piangano”, è uno strumento che serve a programmare le entrate e le uscite, cercare un equilibrio in un mondo instabile. Ha fini politici, ovvio, ma non mi risulta che li definisca Bankitalia, è il Parlamento che è sovrano, non il Direttorio.
Ogni legge di bilancio inoltre andrebbe letta a seconda del contesto storico, dello scenario economico e della successione delle precedenti manovre, cosa che nella prospettiva offerta da Bankitalia manca completamente. È un metodo che Keynes avrebbe bocciato, maestro com’era nell’anticipare il quadro, nello scovare nei dettagli il diavolo del presente e soprattutto del futuro. I “ricchi” di cui parlano le alte burocrazie irresponsabili non sono affatto ricchi, sono quel ceto medio che il piccolo establishment italiano disprezza da sempre. È il “popolino” che quando si sveglia cambia le sorti della politica, come è accaduto con la vittoria di Giorgia Meloni nelle elezioni del 2022. Che Bankitalia possa rendersi conto di cosa accade là fuori è una speranza remota. Spiegano tutto e se andiamo a leggere i loro documenti ufficiali, hanno azzeccato poco o niente. E nessuno tra i governatori degli ultimi 30 anni ha scritto un libro bello e vero come La fine dell’alchimia di Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra. Tutto torna, tempo fa i sindacati di via Nazionale fecero scattare la loro vibrante protesta perché si lamentavano che alla mensa di Bankitalia erano disponibili solo due gusti di yogurt, poverini, da mesi erano costretti a scegliere tra la fragola e la banana.
E voi capite che quando un’istituzione così rilevante affronta questo tipo di discussioni vuol dire che è finita da tempo e infatti la sua funzione è ai minimi di sempre, essendo il potere concentrato nella Bce a Francoforte. Quanto ai “ricchi” da 50 mila euro, la retribuzione minima di un capo dipartimento di Bankitalia è di 205mila euro l’anno, quella di un caposervizio è di 141mila euro l’anno, quella di un direttore di filiale 136mila euro l’anno. Sono gli stipendi pagati da un’istituzione che conserva 2452 tonnellate d’oro (pari a 95.493 lingotti) per un valore nel bilancio del 2024 di 198 miliardi di euro. Il fustigatore della legge di bilancio si chiama Fabrizio Balassone, lasciò pochi anni fa Bankitalia e si fece un giro in Europa come capo di gabinetto di Paolo Gentiloni, allora commissario a Bruxelles. Tutto bene, alta politica. Chiuso il regno gentiloniano, è tornato a Bankitalia. Niente di male, è l’élite con le porte girevoli, c’è solo un dettaglio: chi criticò la prima legge di bilancio del governo Meloni? Balassone, il governatore era il buon Ignazio Visco. Qualche anno dopo, arrivato il governatore Fabio Panetta al timone dell’istituto centrale, chi è andato a fare a fette la quarta legge di bilancio del governo Meloni? Sempre lui, Balassone. Cambiano i governatori, non il copione e chi lo recita. È la fotografia di un sistema di cui la destra sembra non avere piena consapevolezza. La classe dirigente è sempre la stessa, inamovibile, irriformabile, eterna. Nelle alte burocrazie vince la destra e governa la sinistra, il risultato è che non c’è alcuna visione liberale, con l’effetto paradossale di un governo che finora ha privilegiato ampiamente i ceti bassi e che nel momento in cui giustamente fa qualcosa di significativo per la classe media, viene accusato di favorire i ricchi. Ho la netta impressione che gli allievi di Federico Caffè, un grande intellettuale scomparso misteriosamente nel 1987, debbano riflettere sulle loro elucubrazioni, sui loro scoperti magheggi politici. È l’ora di prendersi un caffè.




