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Aiuto, torna odor di Mortadella

Il vero sconfitto di ieri non è Marini, ma Bersani. Il segretario del Pd non si è mai ripreso dalla botta elettorale e ha dimostrato di non avere in mano il partito. Ora dal caos può uscire di tutto, perfino Prodi
di Andrea Tempestini domenica 21 aprile 2013

4' di lettura

  di Maurizio Belpietro @BelpietroTweet Non sappiamo se la candidatura di Franco Marini alla presidenza della Repubblica sia morta o meno. Di sicuro c’è solo che è defunta la segreteria di Pier Luigi Bersani e, probabilmente, con lui è passato a miglior vita  anche il Pd. Dalle elezioni per il capo dello Stato esce infatti rottamato il Partito democratico, vittima delle sue divisioni e delle ambizioni sfrenate dei suoi capi, i quali hanno preferito offrire al Paese uno spettacolo indecente, votando in ordine sparso, piuttosto che trovare un’intesa fra le loro numerose e rissose correnti. Il principale gruppo della sinistra è andato in pezzi, perché molti suoi esponenti hanno deciso che, invece di votare Franco Marini cioè uno di loro, era meglio segnare sulla scheda i nomi di Stefano Rodotà, Sergio Chiamparino, Romano Prodi,  Emma Bonino, Massimo D’Alema,  Giorgio Napolitano, Anna Finocchiaro e perfino Valeria Marini. Almeno duecento voti  buttati al vento, sparpagliati su esponenti politici della sinistra senza che nessuno di questi avesse alcuna concreta possibilità di farcela.  Se c’era un modo per rendere evidente agli italiani la profonda spaccatura del Pd e le difficoltà incontrate dal suo segretario dopo la vittoriosa sconfitta elettorale, beh bisogna riconoscere che quello scelto è stato tremendamente efficace. Il caos del Partito democratico ora è noto a tutti. Al candidato deciso per sostituire Giorgio Napolitano sono andati appena tredici voti in più della metà del totale, cioè circa centocinquanta in meno di  quelli necessari per essere eletti, duecento in meno di quelli che sarebbe stato  legittimo aspettarsi  calcolando le forze di cui potevano disporre Pd, Pdl, Lega e Scelta civica, cioè i protagonisti dell’accordo di mercoledì. In altri tempi, dopo una simile disfatta, ci saremmo attesi le dimissioni del  segretario o quanto meno la minaccia di gettare la spugna da parte di Bersani. Ma viste le condizioni di quello che si è autoproclamato primo partito d’Italia, dal numero uno del Pd non arriverà alcun gesto d’orgoglio: l’ex leader  resterà al suo posto, congelato sulla poltrona dopo esserlo stato da incaricato di formare il nuovo governo. La bocciatura di Marini e la successiva decisione di mettere in freezer anche il candidato alla più alta carica dello Stato rappresenta il naturale epilogo di una serie di errori.  Non essendoci i numeri per eleggerlo, meglio infilare Marini nel congelatore e votare scheda bianca in attesa di tirarlo fuori all’occasione giusta, cioè quando per la nomina del capo dello Stato il regolamento non richiederà più una maggioranza di due terzi, ma ne basterà una semplice. Sotto zero così c’è finito tutto. L’aspirante capo del governo, l’atteso futuro inquilino del Quirinale, il numero uno della polizia, i vertici delle principali e più importanti aziende statali, l’intero Paese. La nostra è una specie di democrazia sospesa, surgelata in attesa che la sinistra decida cosa fare per uscire dall’impasse. Di questa situazione siamo ostaggio da ben 52 giorni, cioè da quando invece di rassegnarsi all’evidenza del risultato elettorale, Pier Luigi Bersani si è presentato al Paese esponendo una strategia contorta e confusa, che prevedeva l’apertura nei confronti di  chi non voleva allearsi con lui e la chiusura verso chi invece aveva manifestato disponibilità per la formazione di un esecutivo di unità nazionale.  Bersani si è rivelato il peggior leader della sinistra di tutti i tempi, dimostrandosi al di sotto di ogni aspettativa, forse perché il compito affidatogli, quello di dare una guida al Paese nonostante non avesse i numeri per farlo, era al di sopra delle sue possibilità. Un impegno troppo grande per lui che ha prodotto un vicolo cieco da cui sembra impossibile trovare l’uscita. Purtroppo, questi sono i momenti peggiori, perché dal freezer può uscire qualsiasi cosa, anche Mortadella. Già, lo spettro è sempre il suo. È  lui la carta coperta che potrebbe all’improvviso essere calata sul tavolo, il fantasma che aleggia sul voto. Non a caso ieri Beppe Grillo, dopo aver sponsorizzato spacciandolo per nuovo il professor Stefano Rodotà, cioè uno dei più vecchi rappresentanti della Casta intellettuale e politica di questo Paese, si è fatto sfuggire che l’ex garante della Privacy potrebbe essere riposto nel sottoscala della Repubblica, anzi, di Repubblica, il giornale per cui scrive, se il Pd si dichiarasse pronto a votare per Romano Prodi. In tal caso i pentastellati offrirebbero senza esitazione i loro voti, unendoli a quelli del Pd. L’inciucio tra i grillini e le spoglie di quello che fu il glorioso partito della sinistra sarebbe così compiuto. Ma per il Paese inizierebbe l’incubo di un settennato sotto il segno del più cattivo tra i finti buoni.  

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