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Tutti gli Usa contro Obama: i 50 stati vogliono la secessione

Rivolta a destra, partita dalla Louisiana, ora è estesa a tutto il Paese. Le firme complessive sono 670mila in pochi giorni. In 6 stati raccolte le firme necessarie per avere risposta dal presidente appena rieletto
di Giulio Bucchi domenica 18 novembre 2012

3' di lettura

  di Claudia Osmetti In America c’è chi vorrebbe tornare ai tempi di Abraham Lincoln e del generale Edward Lee. Non si tratta di revisionismo storico o nostalgia dei tempi andati, in realtà è semplice delusione elettorale. L’amministrazione Obama II non piace (già) a molti, tant’è che a pochi giorni dalla rielezione del presidente democratico un folto numero di cittadini americani ha depositato petizioni per chiedere il ritiro pacifico dei loro Stati dall’Unione, in modo da creare autonomamente un proprio governo indipendente.  La prima richiesta è stata lanciata in Louisiana (il 6 novembre gli 8 «grandi elettori» del Pelican State sono andati a Romney) e in poche ore ha raccolto oltre settemila firme. C’è da dire che nel sistema statunitense una petizione, per poter essere presa in considerazione dalla Casa Bianca, deve raccoglierne almeno 25.000. Ma lo scoglio numerico non sembra essere un problema. Il Texas ha già abbattuto il muro delle 61.000 firme, obbligando quantomeno Obama a pronunciarsi sulla richiesta di secessione ufficialmente presentata dai cittadini. (Ad oggi gli stati dove si è raggiunto il numero minimo sono 6, le firme raccolte complessivamente 670mila, ndr.) ascolta l'intervista di Radio Radicale a Claudia Osmetti La lista degli Stati che vogliono staccarsi da Washington è lunga: oltre 30 su 50 (ma già oggi si raggiunge la quota 50, ndr). Non solo la vecchia Confederazione delle «giacche grigie», quel Sud a cui proprio Lincoln non andava a genio e già nel 1861 minacciava la secessione. In meno di 48 ore il numero degli Stati che chiedono di staccarsi dal governo federale è raddoppiato: se domenica erano «solo» 15, le petizioni secessioniste si sono sparse a macchia d’olio anche in California, New Jersey, New York, Colorado, Florida, Illinois, Michigan, Virginia, e Ohio, Stati cioè tendenzialmente democratici o che - comunque - nell’ultima tornata elettorale hanno votato per l’asinello.  Iniziative che, a prima vista, possono far sorridere. Ma il popolo della secessione, Dichiarazione di indipendenza alla mano, sembra determinato. Nella petizione della Louisiana si legge il rimando diretto alla carta di Philadelphia: è un diritto del popolo stesso sciogliere e formare un nuovo governo quando quello vigente non rispetta il consenso dei governanti. Decentramento federale e potere agli Stati, quindi, sono i punti chiave di queste petizioni che vedono nei «four more years» di Obama alla Casa Bianca un pericolo più che un’opportunità. Non a caso alcune scelte governative, come l’Obamacare o la politica di salvataggio bancario-finanziario di Wall Street, vengono considerate dai «nuovi secessionisti» letteralmente imposte dal governo centrale e poco concilianti con il X emendamento.  Certo, c’è una buona dose di folklore. Ma non è escluso che, nei prossimi anni, si possa assistere al passaggio del movimento secessionista sul piano politico. Oggi sta sicuramente prendendo piede sui social network e sui media americani. Esattamente come, qualche anno fa, iniziarono a farsi sentire altri movimenti come i «Tea Party» o «Occupy Wall Street».  Forse è solo l’ennesima conferma che lo spirito pro-Obama, che tanto riempiva le piazze nel 2008, è agli sgoccioli, nonostante la rielezione. Chissà che, «un po’ per celia un po’ per non morire» l’America non sia davvero pronta alla seconda ondata secessionistica.  

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