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Tunisia, Saied sembra Erdogan. Ma dobbiamo trattare o lo faranno altri

di Pietro Senaldi lunedì 12 giugno 2023

4' di lettura

Premessa doverosa, visto che già c’è chi alza il sopracciglio soppesando se la missione della Meloni in Tunisia sia stata un successo o una mezza delusione. La premier ieri è volata in Africa non per fare gli interessi dell’Italia ma di tutta l’Europa, e per questo era accompagnata dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen e dal leader olandese, Mark Rutte. Anzi, forse sarebbe meglio dire per fare gli interessi di tutto l’Occidente. L’accordo raggiunto prevede uno stanziamento a titolo di dono, un regalo, per la Tunisia. I primi fondi sono finalizzati a controllare l’immigrazione clandestina, favorire i rimpatri, tutelare i confini, combattere gli scafisti, ma la mossa diplomatica va ben oltre il pur fondamentale argomento della bomba migratoria. Qui è in ballo il futuro dell’Africa del Nord, spinta dalla crisi economica e istituzionale ad avvicinarsi sempre più a Russia e Cina, che le porgono la mano, in chiave anti-atlantica.

La Tunisia è una nazione collassata economicamente dopo che il Covid ha messo in ginocchio il turismo e la guerra in Ucraina ha fatto schizzare il costo del grano, creando particolarmente in quel Paese, che era totalmente dipendente dall’importazione da Kiev, una crisi alimentare drammatica. Il Fondo Monetario Internazionale è pronto a soccorrere il presidente Saied, un fu raffinato intellettuale eletto democraticamente e che con il tempo si è innamorato del potere fino a prendere una deriva simile a quella del turco Erdogan, con quasi due miliardi di dollari.

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LEZIONE INUTILE
L’istituto monetario, cinico e numerico per definizione, subordina l’aiuto a una serie di riforme economiche che ribaltino la natura sociale del Paese, che si fonda in buona parte su un assistenzialismo in salsa giallorossa-grillina. La sinistra, italiana in particolare e occidentale in generale, fa tutto un mischione e fa dipendere il salvataggio di Tunisi dal riconoscimento dei diritti umani. Non siamo a una sorta di “vi diamo i soldi solo se fate il gay pride”, ma poco ci manca. Insomma, a certi politici non solo nostrani il disastro libico e la destituzione di Gheddafi, orchestrate da quel Nobel della catastrofe mediorientale di Obama, con il favore entusiasta del nostro bis-presidente Napolitano, non ha insegnato nulla.

Per quanto riguarda i soldi del Fmi, essi seguono regole che l’Italia non può condizionare. Vale qui solo la constatazione che si tratta di prescrizioni alla greca, così rigide che determinerebbero una rivoluzione di piazza. Non a caso, chi ad Atene le accettò dovette salutare il potere per mai più rivederlo. A Tunisi per l’autocrate firmare equivarrebbe a suicidarsi. Del destino personale di Saied a noi interessa zero, non fosse che è il baluardo contro i Fratelli Musulmani e un eventuale arrivo dell’Isis a poche miglia marine dalle coste italiane.

Sacrosanto e lodevole quindi che l’Europa, che per una volta si è ricordata di non essere solo un ente contabile e valutario, sia scesa in campo per evitare il peggio, ossia la riproposizione appunto di uno scenario libico, rischio finanche più pericoloso di una eventuale moltiplicazione per dieci degli sbarchi di immigrati. Merito di questo intervento si deve in buona parte all’opera di Giorgia Meloni, e per questo la sinistra, che ritiene l’abbattimento del governo un tema prioritario rispetto alla salvezza della nostra società, critica.

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LE RICCHEZZE
Bruxelles si è vincolata a finanziare, anzi a regalare soldi al regime di Tunisi non solo per fermare i migranti, come invece fa nella misura di sei miliardi l’anno con il regime di Ankara, ma quelli sono soldi benedetti dalla sinistra. Se l’Europa con una decisione politica, di salvaguardia dello scacchiere internazionale, e non economica, di difesa dei mercati per evitare che un Paese fallisca, corre in soccorso del governo tunisino, ancorché non rispetti i suoi parametri di democraticità, è per evitare di regalare il Continente nero, che è il più ricco di materie prime e risorse, all’asse Pechino-Mosca e ai Brics, i nuovi giganti economici che vogliono fare il mazzo all’Occidente. Siamo già quasi fuori tempo massimo, visto che l’Algeria ha chiesto di aderire al consorzio, la Tunisia minaccia di farlo e Putin, che pure non sta vincendo in Ucraina, tiene buona parte dei battaglioni della Wagner, i suoi tagliagole più spietati ed efficaci, nell’Africa sub-sahariana.

A differenza della nostra sinistra, lo zar, che i media progressisti davano un anno fa per moribondo e rincoglionito, ha capito che Tunisia, Libia, Egitto sono il secondo fronte della guerra mondiale Est-Ovest, già in corso e del quale Kiev e il Donbass sono solo il primo, più impegnato, scenario. Chi chiede più diritti prima di aiutare Saled scorda la lezione di Kabul, Bagdad, Tripoli. Povertà e disperazione sono nemici dei diritti e spingono le nazioni che le vivono a scelte illiberali. Non si può essere con Kiev ma contro Tunisi, è una contraddizione geopolitica che rivela insipienza se non malafede. Sarebbe come chiedere la fedina penale a un clandestino che sta annegando, tanto per usare un’immagine che forse i progressisti nostrani possono comprendere.

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