Il principio di proporzionalità invocato contro Israele dopo la reazione armata alla mattanza del 7 ottobre a opera di Hamas è più emozional-utopistico che razional-giuridico. Il diritto internazionale, che non si può evocare o tacere per capriccio o interesse o tirare per la giacca quanto più fa comodo, sugli ostaggi e sugli scudi umani è abbastanza chiaro e va ben oltre il principio di causa-effetto e quindi delle responsabilità. Gli ostaggi civili sono stati razziati da Hamas in Israele e adoperati come scudi umani per obiettivi militari palesi, al pari dell’indistinta massa di civili palestinesi della Striscia di Gaza a protezione dei centri di comando sotterranei rispetto ad apparentemente innocue e giuridicamente rispettate strutture come luoghi di culto, scuole e ospedali. Niente di nuovo a Gaza, come già verificatosi negli attacchi del 2008-2009 e del 2014 e come sancito dettagliatamente dalle Nazioni Unite (Report Human Rights Council), che i partigiani nostrani in kefiah dovrebbero per lo meno rileggere.
Siamo di fronte a una caratteristica del conflitto cosiddetto asimmetrico, in cui la parte militarmente più debole ricorre alla protezione degli obiettivi con la popolazione civile per neutralizzare o depotenziare la superiorità del nemico. Si agisce su due fattori: il primo è quello della ritrosia in questo scenario a far uso pieno di armi, mezzi e uomini, come accadrebbe in un conflitto classico finalizzato alla sconfitta o all’annientamento sul campo di battaglia; il secondo è l’elemento mediatico, che agisce come una leva, non di rado distorsiva e unilaterale, sull’opinione pubblica interna e internazionale. Le immagini di donne e bambini sono uno choc soprattutto in realtà sociali come quelle occidentali, e innescano reazioni che portano a livellare ragioni e torti, quando non addirittura a rovesciarli in prospettiva. La legalità o la legittimità dell’attacco svapora alla luce della percezione delle sue conseguenze e di come vengono riportate dai mass media nei canali ufficiali e strutturati come in quelli ufficiosi e indistinti dei social.
Il senso di umanità prevale sul Diritto internazionale umanitario che si propone di disciplinare le modalità di un conflitto e temperarne gli effetti indipendentemente dalle ragioni che l’hanno scatenato e del ricorso alla forza. Uno dei cardini sta appunto nel divieto di considerare i civili come obiettivi militari; addirittura è vietato attaccare obiettivi militari se si prevedono perdite sproporzionate tra la popolazione civile, ma questo non può certamente giustificare l’utilizzo consapevole o doloso dei civili per impedirlo. Quello che sta accadendo a Gaza è emblematico ed eloquente. Gli ostaggi israeliani sono usati come strumento di ricatto militare e politico: evitare un attacco risolutivo ad ampio raggio, premere per il rilascio di centinaia di prigionieri condannati per terrorismo.
La Convenzione di Ginevra del 1949, all’articolo 3. prevede che «sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo (...) le violenze contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi; la cattura di ostaggi; gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti». Il divieto di cattura degli ostaggi è ribadito all’art. 34 e pure nell’art. 147, unitamente a distruzione e appropriazione di beni «non giustificate da necessità militari e compiute in grande proporzione facendo capo a mezzi illeciti e arbitrari». Esattamente quello che invece Hamas ha messo in opera il 7 ottobre, uccidendo, mutilando, stuprando, torturando, distruggendo, esibendo i prigionieri come trofei, in particolare se donne. Nel 1977, sempre a Ginevra, all’art. 48 del I Protocollo, è stato stabilito che le parti in conflitto armato «dovranno fare, in ogni momento, distinzione tra la popolazione protetta e i combattenti, nonché tra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari», vietando le rappresaglie sui civili (art. 20), la cattura di ostaggi e le punizioni collettive (art. 75).