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Donald Trump e l'Iran: cosa vuole davvero (e cosa rischia)

di Daniele Capezzone giovedì 19 giugno 2025

4' di lettura

Se è vero che esistono momenti decisivi che segnano il destino di una presidenza, queste ore per Donald Trump possono rappresentare una circostanza del genere. I critici pregiudiziali di Trump non hanno dubbi: ancora una volta – dicono – l’inquilino della Casa Bianca si muove in modo disordinato e casuale, come un centravanti un po’ disperato che cerchi un gol a caso. Non è riuscito nella trattativa tra Russia e Ucraina? Era stato esitante ed enigmatico rispetto ad altre iniziative di Benjamin Netanyahu? Ma stavolta – ecco la tesi degli antitrumpisti – vedendo una vittoria a portata di mano, ci si butta sopra in fretta e furia. E dunque si prepara ad aggiungere il proprio peso all’azione di Israele, vedremo in che forma: forse limitandosi a contribuire alla distruzione dell’impianto nucleare di Fordow, forse in altro modo addirittura più impegnativo. Tutto questo, sempre secondo gli avversari del trumpismo, con un presidente incurante delle conseguenze, poco attento al “post”, scarsamente riflessivo sul rischio che l’incendio bellico possa propagarsi o finire fuori controllo. Al punto da trascurare perfino lo spaesamento della parte più isolazionista e meno interventista del mondo Maga: quelli che si erano abituati all’idea di un Trump desideroso di uscire dalle “guerre infinite” altrui, e non disposto a infilarsi in altre avventure belliche.

È possibile che in questi argomenti – depurati dal pregiudizio e dall’ostilità ossessiva – ci sia anche qualche pezzo di verità? Certo che sì, sarebbe sciocco escluderlo. Ma esiste anche un modo diverso – meno irridente, meno scontato – di ragionare sulle valutazioni che Trump sta compiendo in queste ore. Come sappiamo, la capacità americana di “deterrenza”, di mandare messaggi forti ai “cattivi” del mondo, era andata in fumo con la precipitosa fuga bideniana dall’Afghanistan. Quell’orribile agosto del 2021 recapitò un potente messaggio non solo ai Talebani, ma pure – teatro per teatro, quadrante per quadrante – a Pechino, a Teheran, a Mosca. Ciascuno vide che il “guardiano del mondo” era debole. Ecco, stavolta – invece – partecipare a un’impresa vincente cogliendo l’occasione creata da Israele realizzerebbe l’operazione uguale e contraria: ripristinerebbe la deterrenza Usa, rimetterebbe Washington al centro del ring geopolitico mondiale, darebbe il senso di una presidenza più pragmatica (nei comportamenti) che ideologica (nelle parole), pronta a far tesoro di circostanze favorevoli, ridisegnando il volto del Medio Oriente.

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Affinché questa scommessa si riveli vincente, occorre tuttavia che si allineino diversi fattori: niente “boots on the ground” (cioè niente truppe Usa impantanate sul terreno), niente vittime americane, azioni chirurgiche efficaci (su Fordow, in primo luogo), e un piano robusto e convincente per il dopo Khamenei. Non solo: occorre – al di là del dossier iraniano – che si riveli affidabile il partner strategico che Trump ha scelto per tutta la regione, e cioè l’Arabia Saudita, a cui Trump pensa – in una forma o nell’altra – anche per affrontare la fase postbellica a Gaza. In uno scenario tanto complesso e così carico di incognite, non è davvero il momento delle previsioni: esercizio adatto ai maghi o – più facilmente– a imbroglioni e improvvisatori. È semmai la fase in cui è necessario delineare scenari, anche molto diversi tra loro, e immaginare per ciascuno di essi uno sviluppo possibile. Va valutata l’ipotesi migliore: e cioè una durata limitatissima delle ostilità, per manifesta inferiorità del regime iraniano, nonostante le roboanti minacce di ieri di Khamenei. Va tuttavia messa nel conto anche l’ipotesi opposta, e cioè che il conflitto non sia così breve: e che il tempo della guerra coincida con la durata dell’arsenale missilistico con cui Teheran può ancora pensare di minacciare Gerusalemme e Tel Aviv.

Nel primo caso, può scattare l’eliminazione di Khamenei o eventualmente il suo esilio. Apparterrebbe a questa logica anche l’ipotesi da preferire in assoluto: quella della “resa incondizionata” che ancora ieri, per il secondo giorno consecutivo, Trump ha chiesto a Teheran. Di tutta evidenza, a quel punto, saremmo davanti alla certificazione dello sgretolamento del regime e alla sconfitta conclamata del dittatore, con relativo smantellamento del programma nucleare. Nel secondo caso, invece, le incognite sarebbero maggiori: quali perdite per Usa e Israele? Quale reazione dell’opinione pubblica occidentale? Quale rischio di allargamento dell’incendio? Quali comportamenti da parte di altri attori (Cina, Turchia, Russia, per citarne solo tre)? In entrambe le ipotesi occorre puntare – con la collaborazione decisiva dei paesi della regione – a una chiusura ordinata delle ostilità, e a un dopoguerra in cui non sia il caos a dominare in territorio iraniano. Esercizio difficile e delicato, che meriterebbe impegno positivo da parte di tutti i paesi occidentali: ma da troppe parti, ancora una volta, si preferisce il comodo sport delle risatine all’indirizzo di Trump.

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