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Iran, la verità sui despoti "amici": "I dittatori difendono l'ayatollah, ma..."

di Carlo Nicolato lunedì 23 giugno 2025

3' di lettura

 Il futuro dell’Iran è in buona parte nelle mani del ministro degli Esteri Abbas Araghchi, l’uomo che negli ultimi dieci anni ha tenuto le fila dei negoziati con gli americani, prima con Obama e poi Trump. A lui spetta ora il difficile compito di fare la conta degli alleati ed è anche per questo, oltre che per la solita inutile riunione di emergenza dell’Organizzazione dei Paesi Islamici, che ieri si trovava in Turchia, a Istanbul, da dove ha poi preso un volo per Mosca per incontrare oggi Putin. Nei prossimi giorni è atteso anche a Pechino, ma tutto dipenderà dagli avvenimenti in corso.

RUSSIA

Il ministero degli Esteri russo ieri ha condannato gli attacchi americani sottolineando come si trattino di una grave violazione del diritto internazionale, della Carta delle Nazioni Unite e delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, «che in precedenza avevano inequivocabilmente qualificato tali azioni come inaccettabili». Parole di rito necessarie per marcare una volta di più il territorio tra i due blocchi contrapposti, ma che assumono un significato ancora più profondo perché arrivano solo poche ore dopo quelle del presidente Putin che ha sottolineato il diritto dell’Iran «di perseguire programmi di tecnologia nucleare per scopi pacifici» e il fatto che l’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica) non abbia «prove o segnali che indichino lo sviluppo di armi nucleari» da parte di Teheran.

Putin ha escluso qualsiasi coinvolgimento di tipo militare in quanto «abbiamo già un’operazione militare contro coloro che pongono una minaccia alla Russia», ma ha garantito che Mosca è pronta a fornire «l’assistenza e il supporto necessari allo sviluppo dell’energia nucleare pacifica». Cosa può dunque ottenere Araghchi da Putin? Appoggio politico che consentirebbe all’Iran di avere maggior peso in caso di riprese delle trattative come Washington stessa vorrebbe.

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CINA

Anche Pechino ha ritualmente condannato gli attacchi, parlando di «svolta pericolosa» e di come la storia abbia «ripetutamente dimostrato che gli interventi militari in Medio Oriente spesso producono conseguenze indesiderate, tra cui conflitti prolungati e destabilizzazione regionale». Araghchi e il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si sono sentiti la scorsa settimana con una telefonata in cui Pechino ha promesso un ruolo costruttivo in funzione di una possibile de-escalation. Per Teheran la Cina rappresenta un’alleanza fondamentale: Pechino è il principale acquirente di petrolio iraniano, malo stesso non si può dire per Pechino che dall’Iran importa solo il 10 per cento (facilmente rimpiazzabile) del suo fabbisogno.

A Pechino però non andrebbe nemmeno male che la situazione degenerasse, specie nel lungo termine, perché gli eventuali svantaggi economici sarebbero ricompensati dal fatto che un coinvolgimento militare degli Stati Uniti in Medio Oriente prosciugherebbe risorse, tempo e attenzione strategica del grande rivale. Xi insomma si attiene al vecchio proverbio del suo Paese, si siede e aspetta sulla riva del fiume, qualcosa di sicuro arriverà.

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TURCHIA

Anche la presidenza turca ha rimarcato come «l’adesione degli Stati Uniti all’aggressione israeliana contro l’Iran sia un passo che non porterà alla pace o alla stabilità, ma al caos e alla confusione in Medio Oriente», paragonandolo all’intervento militare statunitense in Iraq e Afghanistan che «ha portato a un aumento della radicalizzazione e del terrorismo nel mondo». Ankara, che a differenza di Russia e Cina ha urgenti interessi di vicinato (534 chilometri di confine comune) e un conto aperto con Israele, parla di una diretta correlazione tra gli interventi militari statunitensi e l’ostilità verso l’Occidente in Medio Oriente, ipotizzando implicitamente una ripresa del terrorismo.

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