Abu Mazen non vede l’ora di sostituirsi ad Hamas a Gaza. In fin dei conti gliel’avevano portata via con un colpo di mano. Peccato che il corpo di polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese e le Brigate dei Martiri di Al Aqsa siano ormai indistinguibili per la loro contiguità e complicità nell’attività terroristica contro Israele, come riporta il recente studio Forze di Sicurezza di giorno e combattenti suicidi (terroristi) di notte, a cura di Palestinian Media Watch, che monitora i mezzi d’informazione di lingua araba nei Territori.
Per quanto il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas (quando mette fra parentesi il nome di battaglia Abu Mazen) sia considerato l’interlocutore principale di capi di Stato e di governo, presentarsi alla comunità internazionale come un’alternativa credibile ai tagliagole di Hamas è un’impresa se le modalità di azione sono ambigue e del tutto similari rispetto a quelle utilizzate dai rivali. Tanto che gli agenti dell’Anp che finiscono in carcere, oltre allo stipendio, ricevono anche un supplemento retributivo per le loro imprese. Sono 38 i sussidi alle famiglie di martiri e prigionieri riconosciuti dal direttore delle forze di sicurezza, il generale Majed Faraj, riferiva il 26 marzo scorso l’organo ufficiale dell’Autorità Palestinese, Al Hayat Al Jadida. Proprio come fa Hamas con i suoi miliziani morti o prigionieri.
È lo stesso portavoce di Fatah, il partito di Abu Mazen, a pubblicare l’elogio funebre di un comandante della milizia, eliminato il 5 gennaio scorso durante un’operazione antiterrorismo israeliana: «Le Forze di Sicurezza piangono il loro eroico figlio martire primo luogotenente Hassan Ali Hassan Rabaiah, colpito dall’esercito di occupazione e caduto come martire mentre svolgeva il suo dovere nazionale». In contemporanea, le Brigate dei Martiri di Al Aqsa lo celebravano fra i ranghi delle proprie vittime.
Nessun conflitto di interessi, perché in fondo il nemico è lo stesso: i sionisti. Accade regolarmente, perché, anche se in teoria il compito della polizia di Ramallah sarebbe quello di combattere i jihadisti, il servizio istituzionale e la lotta armata non sono affatto incompatibili. Lo aveva proclamato proprio Abu Mazen, ripreso da Al Hayat Al Jadida il 14 novembre 1922, invitando i propri pretoriani a informare i militari delle Idf: «Non sorprendetevi se scoprirete che le Forze di Sicurezza Palestinesi sono quelle che entrano in azione contro di voi durante le vostre invasioni di campi profughi o di villaggi o fattorie o durante il furto di olive».
La doppia appartenenza, in realtà, è una sola anche per Muhammad Zakarneh, arrestato il 19 settembre 2024 e per un suo parente, Shadi Zakarneh, ucciso dopo aver aperto il fuoco contro i militari di Tsahal. Per entrambi, le organizzazioni parallele diffondono “santini” con la bandiera palestinese e la moschea di Gerusalemme sullo sfondo.
Non si può nemmeno dire che si tratti di infiltrati, perché la commistione tocca anche le alte gerarchie. Lo dimostra il video in cui il colonnello Luay Erziqat, portavoce ufficiale della polizia della Cisgiordania, canta fra la folla l’inno della Brigata Jenin, branca della Jihad Islamica.
Si fanno un po’ di concorrenza, fra varie sigle e formazioni nella competizione a chi versa più sangue ebraico, come ammetteva la tv ufficiale dell’Anp il 19 marzo 2023, spiegando che «oltre 1.500 operazioni militari contro l’occupazione israeliana sono state compiute da membri del movimento di Fatah e i membri delle Forze di Sicurezza».
L’ultimo caso è l’uccisione dell’agente di sicurezza israeliano Shalev Zebuloni, colpito a morte nell’insediamento ebraico di Gush Etzion l’11 luglio dai poliziotti palestinesi Mahmoud Abed e Malek Shalem. L’Anp li aveva mandati ad addestrarsi in Qatar. Quando sono stati uccisi, ne ha esaltato l’estremo sacrificio e li ha proposti come esempio di lotta. Dai terroristi di Hamas li distingueva solo una divisa blu.