Stai a vedere che per avere la solidarietà delle femministe bisogna essere antisemiti. Cosa che dopo il pogrom del 7 ottobre 2023 non ha fatto, il movimento “Non una di meno” ha organizzato per oggi una manifestazione in Piazza Capranica a Roma, nel pomeriggio. Si parlerà di «grammatica di un genocidio», qualunque cosa voglia dire. Per intenderci, le tizie di “Non una di meno” sono quelle che quando sfilano a Milano in occasione dell’8 marzo imbrattano la statua di Indro Montanelli e dicono che non si tratta «di vandalismo: è riscatto».
Come Judith Butler, l’intellettuale ebrea californiana, madre della teoria del gender, che ha abbandonato la faticosa e sottile carriera da filosofa per una più pugnace strada politica, così “Non una di meno” sostiene la causa pro-Pal e nel frattempo manifesta contro tutto il resto, un andirivieni da giramento di testa tra il Medio Oriente e le sale parto nostrane. Protesteranno contro il governo Meloni, per esempio, «eletto dalla lobby anti-scelta paladina della vita dal suo concepimento», si legge nell’invito al sit-in, e contro «l’arroganza dei ricchi padroni del mondo». Come Butler, appunto, che auspica un’alleanza tra tutte le minoranze del mondo (movimento pro-Pal, trans, queer, antifascisti, neri, senzatetto, migranti, vittime del cambiamento climatico, donne) per edificare «una democrazia radicale ispirata agli ideali del socialismo» contro il capitalismo neoliberista.
Male femministe, soprattutto quelle odierne, le eredi del movimento #MeToo e della Seconda e Terza Ondata del femminismo occidentale, che saranno in piazza a dire – colpo di reni di realpolitik – di riconvertire «il piano di Riarmo Europeo in welfare», si guardano i piedi, e altrettanto i fanno commentatori attenti soltanto a non spiacere. E così le une e gli altri si sono dimenticati, ma sarà stata svagatezza, di non aver detto niente 664 giorni fa, quando le israeliane vennero aggredite, spogliate, costrette alla nudità, legate agli alberi, molestate, violentate, minacciate di matrimonio forzato dai terroristi di Hamas. Dopo le violenze sessuali usate in modo sistematico come arma durante il pogrom, non avevano compilato manifesti su «corpi sacrificabili» e sulla «disumanizzazione» in atto, non avevano detto «rompiamo l’indifferenza», ciò che oggi scrivono parlando di Gaza. Anzi, diverse femministe accademiche, respingendo le denunce di Gerusalemme sul ricorso alla violenza sessuale contro gli ostaggi, hanno abbracciato Hamas, insieme con tutto il bagaglio patriarcale reazionario dell’Islam radicale, quello dell’Iran (dove ammazzano le donne per non aver indossato il velo correttamente), dell’Afghanistan (dove gli uomini trattano sul prezzo delle spose), del Pakistan (i cui effetti della micidiale commistione fra culto e tradizione li abbiamo in casa, vedi il destino di Saman Abbas). La riluttanza patologica di credere nell’irriducibilità della tradizione patriarcale musulmana sta il fallimento intellettuale ed etico del femminismo.
Nonostante il rapporto dell’Onu del marzo 2024, che ha verificato il ricorso alla «violenza sessuale durante gli attacchi del 7 ottobre»; nonostante la Corte penale internazionale, che ha rilevato gli abusi contro gli ostaggi; nonostante “A Quest for Justice”, lo studio appena pubblicato sugli stupri perpetrati da Hamas in modo sistematico. Nonostante i demoni nel 7 ottobre, in Occidente, quando si tratta di ebrei, piuttosto che dalla parte delle donne è meglio stare dalla parte della Jihad.