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Il mistero di Stonehenge risolto da un dente di mucca

Dall’analisi del molare di un bovino di 5000 anni, fa trovato all’ingresso del complesso, gli scienziati ritengono di aver capito come e chi ha trasportato lì le famose “pietre blu”
di Nicoletta Orlandi Posti martedì 26 agosto 2025

4' di lettura

Un piccolo reperto, apparentemente insignificante, può aprire un varco nel mistero di Stonehenge. È il caso di un antico molare bovino, rinvenuto più di cent’anni fa nei pressi dell’ingresso meridionale del cromlech e solo oggi sottoposto ad analisi sofisticate. Da questo frammento di vita animale, vecchio oltre 5. 000 anni, gli archeologi hanno ricavato indizi che potrebbero riscrivere uno dei capitoli più enigmatici della preistoria: come furono trasportate le famose pietre blu del grande monumento neolitico che ogni anno attira oltre un milione di visitatori di cui 30. 000 si a radunarsi all’alba del solstizio d’estate per godere del momento in cui il sole sorge perfettamente allineato con l’asse del cerchio di pietre. Osservatorio astronomico, cimitero, tempio druidico, memoriale: le ipotesi sulla funzione di Stonehenge si rincorrono, si moltiplicano, spesso si contraddicono. Non sappiamo chi lo abbia costruito, né perché. Eppure il suo fascino resiste: un luogo che da cinque millenni veglia sulla piana di Salisbury e che continua a evocare più domande che risposte.

Il dente di mucca, vissuta tra il 2995 e il 2900 a. C. , ci porta alle origini stesse del monumento. Gli scienziati del British Geological Survey, dell’Università di Cardiff e dello University College of London hanno sottoposto il reperto a un’analisi isotopica di ossigeno, piombo, stronzio e carbonio. Il risultato è stato sorprendente: l’animale trascorse parte della sua vita in un’area caratterizzata da rocce paleozoiche, la stessa regione delle colline di Preseli, in Galles, da cui provengono le bluestones. Per la prima volta non abbiamo soltanto un collegamento geologico, ma anche una traccia biologica che unisce Stonehenge al Galles. L’ipotesi più suggestiva è che i bovini non fossero solo fonte di latte e carne, ma strumenti di trazione: compagni di viaggio nel lungo e faticoso trasporto dei monoliti. Traini, slitte, strade stagionali costruite con ingegno, piuttosto che fiumi e imbarcazioni: un mondo in cui l’uomo si alleava con l’animale per dar vita a una delle imprese più titaniche dell’antichità.

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«Per la prima volta abbiamo prove dirette del movimento del bestiame dal Galles verso Stonehenge, e forse anche del loro ruolo attivo nella costruzione del monumento», ha spiegato Jane Evans, autrice principale dello studio pubblicato sul Journal of Archaeological Science. Il dente racconta anche altro: proteine e isotopi rivelano che si trattava di una femmina, probabilmente gravida o in allattamento, e che seguiva un ciclo stagionale di pascoli tra foreste e pianure. Sei mesi di vita incisi nello smalto diventano una lente sul mondo umano che la circondava: comunità mobili, capaci di sfruttare le risorse naturali con una sapienza che univa praticità e spiritualità. È suggestivo pensare che il dente sia stato volutamente sepolto nei pressi dell’ingresso meridionale del sito: forse un’offerta, forse un segno rituale, forse un indizio. Di certo per noi è prezioso: un dettaglio minuscolo che ci fa intravedere la vastità di un cantiere durato secoli. Basti pensare che gli archeologi ritengono che la sua fondazione sia iniziata intorno al 3000 a. C. e che sia stata ampliata fino al 1500 a. C. circa, con la risistemazione delle pietre blu e lo scavo di altre fosse. Ma ancora prima – siamo nell’8000 o 7000 a. C. – le persone già utilizzavano l’area per le cerimonie.

Quello che gli abitanti dell’epoca hanno sotterrato con cura è sì solo un frammento ma, come spesso accade in archeologia, sembra essersi rivelato più eloquente del monumento intero che è stato sistemato, così come lo vediamo noi, nel Novecento. Ma Stonehenge non è solo archeologia, è anche mito. Nel Medioevo una leggenda lo attribuiva al mago Merlino, che avrebbe trasportato i massi dall’Irlanda con arti magiche. Per altri era stato edificato dai giganti, depositari di forze sovrumane. Nel Seicento John Aubrey e poi William Stukeley tentarono di leggerlo come tempio dei druidi, padri mitici della religione celtica, anche se oggi sappiamo che i druidi arrivarono molto dopo. Eppure queste storie hanno continuato ad alimentarne l’aura sacrale. La cultura moderna non ha smesso di evocarlo: Blake lo cantò come simbolo di un’Inghilterra primordiale,

Hardy lo fece scenario tragico in Tess dei d’Urberville, Constable lo dipinse con i suoi cieli tempestosi, Kubrick lo rievocò come eco ancestrale nel prologo cosmico di 2001: Odissea nello spazio. Stonehenge sembra appartenere a più mondi insieme: scienza e mito, religione e arte, astronomia e memoria. E intorno al solstizio continuano a circolare antiche credenze: c’è chi dice che le pietre “respirino” al primo raggio del sole, cambiando leggermente di colore, e chi attribuisce loro poteri curativi se toccate all’alba. Leggende popolari sostengono persino che in quel momento le pietre si animino, sussurrando segreti custoditi da millenni. Oggi, grazie al dente di una mucca, possiamo immaginare non solo gli uomini che alzarono quelle pietre, ma anche gli animali che con loro condivisero il peso dell’impresa. Un frammento minuscolo che illumina una delle più grandi costruzioni dell’umanità, e che ci ricorda come, anche nella preistoria, la storia non fosse mai fatta solo di uomini, ma di alleanze, comunità e forze intrecciate.

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Alessia Albertin