Il Nepal brucia da marzo, ma adesso la situazione è precipitata. Si contano circa 400 feriti e 22 morti fra cui Rajyalaxmi Chitrakar, moglie dell’ex premier comunista Jhala Nath Khanal (ancora influente), alcuni ministri picchiati e i palazzi del potere bruciati assieme alle abitazioni di certi esponenti politici. Dopo la fuga in elicottero del presidente Ram Chandra Poudel e le dimissioni del primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli, tiene banco l’esercito. Ma, mentre la situazione nel Paese abbarbicato sull’Himalaya fra India e Tibet esplodeva, da noi è andata in scena la banalizzazione.
Colpa del bavaglio imposto dal governo ai social media, si dice. In realtà c’è molto di più. Dal 3 settembre in Nepal sono state oscurate 26 piattaforme di condivisione di contenuti, ma non è il silenzio social ad avere acceso le polveri: è stata, al contrario, la rivolta delle piazze a generare il black-out governativo delle trasmissioni di libertà e disobbedienza civile in una società che sta cercando di scrollarsi di dosso un regime neo-maoista. Il governo aveva infatti imposto ai social una sorta di registrazione presso apposito ufficio legale con tanto di deposito dei nominativi dei responsabili dei contenuti, ovvero la censura, e qui il vaso è traboccato.
Sbaglia dunque chi pensa che quello in corso in Nepal sia un conflitto sociale alle periferie ininfluenti del mondo. Il Nepal è infatti un crocevia decisivo. Tanto per cominciare nel 566 a.C. ha dato i natali a Siddharta Gautama, cioè il Buddha storico, e per i buddisti è una terra sacra dove si celebrano festività importanti come il Vesak per ricordare nascita, illuminazione e morte del fondatore. I suoi legami spirituali con il Tibet occupato dalla Cina comunista sono forti. Poi c’è quel complesso di riti e culti che in Occidente viene chiamato induismo, cioè la fede vissuta della stragrande maggioranza della popolazione: milioni di persone che mal sopportano il secolarismo dei regimi politici materialisti di sinistra. Infine ci sono i giganti Cina, secolarista, e India, fortemente religiosa.
Rifugiatosi in una caserma della capitale Katmandu, il premier dimissionario Oli ha scritto a Shankar Pokhrel, segretario del suo partito, il Partito comunista marxista-leninista, per spiegargli la rivolta citando due fattori, l’uno che contiene l’altro. Il primo è il Lipulekh, il valico a 5.200 metri sull’Himalaya fra India, Nepal e Tibet occupato dalla Cina; il secondo è il ruolo decisivo che quel passo montano ha sul piano strategico sì, ma anzitutto per motivi religiosi. «Ho perso il potere perché mi sono opposto alla nascita di Rama ad Ayodhya», ha scritto Oli riferendosi al tempio hindu dedicato al dio Rama che di recente è stato inaugurato nella zona dal premier indiano Narendra Modi. Nel frattempo la Cina, che cambia i toponimi sulle carte geografiche per sfidare quell’India che le è rivale e ospita la guida suprema dei tibetani, il Dalai Lama, considera il Nepal un’arma indispensabile per pungolare ma anche contenere Modi. Per di più il Nepal è utile ai traffici cinesi lungo la Nuova Via della Seta. Quando la polveriera nepalese ha preso fuoco in marzo lo slogan delle proteste era «Ritorni il re, salvi il Paese». Se Pechino perde Katmandu, vince Nuova Delhi; se in Nepal perdono i neo-maoisti, vince il popolo di quel bel Paese.