La trentesima Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, la COP30, si è chiusa questo fine settimana a Belèm, nel Brasile amazzonico, con un sostanziale fallimento. Un esito facilmente prevedibile e non solo per l’assenza di tre grossi player mondiali come la Cina, l’India e, per la prima volta, gli Stati Uniti. E nemmeno per la mancata inclusione nel testo finale dell’accordo di una roadmap per l’abbandono dei combustibili fossili, che era l’obiettivo che ci si era dati all’inizio dei lavori.
Il fallimento è, a ben vedere, più radicale, strutturale. Ed è un fallimento doppio: dell’ideologia climatista astratta che si è impossessata, per convinzione o per interesse, delle menti e dei cuori dei leader mondiali negli ultimi decenni, nonché di una vasta pletora di attivisti e antagonisti; e di quella governance mondiale anch’essa fortemente ideologizzata che si è fortificata nell’età della globalizzazione, con il proliferare di iniziative come questi happening, sempre più mastodontici e sempre più dispendiosi, sotto il cappello delle Nazioni Unite, ma non solo.
Due fallimenti strettamente intrecciati: certe politiche, come quelle appunto climatiche, non solo non hanno raggiunto gli effetti specifici desiderati, ma hanno avuto come conseguenza visibile la perdita di leadership globale da parte del mondo occidentale che le aveva ideate e messe in opera. Mentre Europa e Stati Uniti si sono dissanguate per promuovere investimenti green, costosi e spesso non all’altezza delle performance richieste, le emissioni globali di CO2 sono costantemente aumentate fino a raggiungere l’anno scorso il livello massimo di sempre. A contribuire al loro aumento sono stati proprio quei paesi un tempo considerati “in via di sviluppo” e che oggi, in virtù dei benefit loro concessi per una sorta di risarcimento postumo alle “malefatte” inquinanti dell’Occidente, sono finalmente usciti dallo stato di “sottosviluppo” in cui versavano precedentemente (come tutte le religioni anche quella climatista comporta “sensi di colpa” e atti di “espiazione” dei presunti “peccati” commessi seppure in tempi passati). Uno “sviluppo senza progresso”, però, perché se la globalizzazione ha redistribuito le ricchezze a livello globale, non altrettanto ha fatto in sede di democrazia e diritti, come è ben noto.
Ripercorrere la storia di queste Conferenze è molto istruttiva perché dimostra come l’ideologia e gli interssi abbiano fatto velo ad una reale comprensione della realtà, che, messa da parte, non sarebbe stato difficile immaginare che prima o poi avrebbe presentato i conti. Ad ogni fallimento, piuttosto che prenderne atto e capirne le ragioni per riformulare in modo più realistico gli obiettivi, si è quasi sempre risposto alzando più in alto l’asticella.
Nello stesso tempo, non solo si è risarcito i paesi un tempo non industrializzati ma si è ipocritamente chiuso un occhio nel permettere loro di non rispettare gli impegni presi. Ha agito una sorta di ideologia terzomondista ancora forte, ma sopratutto l’emergere di nuovi rapporti di forza a livello globale. Proprio questi interessi fanno sì che queste conferenze continuino a svolgersi ogni anno come uno stanco rito, una sorta di coazione a ripetere. La decisione di Trump di tenerne fuori gli Stati Uniti ha perciò una sua ragion d’essere e non sarà senza effetti. Il presidente americano non ha fatto altro che prendere atto del fallimento di certi modelli e trarne le conseguenze. Non è il multilateralismo che è in crisi, ma un certo modo di concepirlo.