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L'educazione al lavoro è il primo presupposto per trovarlo

di Giulio Bucchi domenica 21 luglio 2019

2' di lettura

Riprendo una dichiarazione di Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri, comparsa sulla stampa un paio di giorni fa. Bono afferma: “Nei prossimi due o tre anni avremo bisogno di 5-6 mila lavoratori ma non sappiamo dove andarli a trovare. Carpentieri, saldatori… Abbiamo lavoro per 10 anni e cresciamo ad un ritmo del 10 per cento ma sembra che i giovani abbiano perso la voglia di lavorare”. Ovviamente non mi interessa tanto ragionare sulla consistenza del dato riportato quanto piuttosto indagare il motivo per cui i giovani, a detta di Bono, appaiano così riluttanti al lavoro. Per trovare lavoro il primo presupposto è avere una cultura dello stesso, essere stati in altre parole educati a riconoscere nel lavoro una opportunità di liberazione e di emancipazione. Questo attiene ovviamente al valore del lavoro che ciascun individuo dovrebbe ricevere dalla scuola, dalla società ma soprattutto dalla famiglia, perché il lavoro ha una dimensione fortemente identitaria. Se, ad esempio, ripensiamo ai nostri nonni immediatamente ci viene in mente il loro lavoro e soprattutto come lo svolgevano. I giovani si portano sempre sulle spalle le aspettative e le visioni delle generazioni che li hanno preceduti e questo vale in positivo come in negativo. Se provengo da un sistema familiare in cui non c’è educazione al lavoro e dove è grande la povertà culturale ed economica, probabilmente ho imparato che un reddito, indipendentemente dal modo con cui viene procurato, può essere considerato un “lavoro”. Così, allora, anche fare il palo della camorra o procurarsi da vivere in attività variamente illecite, può essere considerato una occupazione possibile. L’educazione al lavoro presuppone la capacità di trasmettere non astratti principi ma fatti concreti che vengono ad esempio dalla soddisfazione di guadagnare danaro a valle di un impegno onesto. Oggi fare il pusher non è poi così economicamente vantaggioso: un piccolo spacciatore è praticamente un operaio della camorra, guadagna non più di 2 euro per dose piazzata, vive di notte per portare a casa un guadagno netto 1200-1500 euro al mese, esattamente quanto guadagnerebbe facendo il pizzaiolo o il food-rider. Bisogna, quindi, educare, soprattutto i giovani provenienti da contesti economicamente svantaggiati, disillusi da un ascensore sociale rotto e condizionati dal guadagno svincolato dal sacrificio, a riconoscere il valore della relazione lavoro-impegno-onestà-legalità perché la dignità del lavoro si esprime non tanto in quel che si fa, ma nel modo in cui lo si fa. Per questo i giovani vanno formati al più presto, anche all’interno di quel grande piano per il lavoro che la Regione Campania sta varando in questi giorni, perché lo sviluppo e l’occupazione ripartono quando i giovani più a rischio saranno in grado di fare la differenza tra denaro guadagnato onestamente e non. di Maria Luisa Iavarone

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