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Facci sull'Oscar a Sorrentino: "Il grande pregiudizio"

di Nicoletta Orlandi Posti domenica 9 marzo 2014

4' di lettura

I ringraziamenti di Sorrentino alla cerimonia dell’Oscar sono stati i più bruttarelli di sempre, ma anche i più coerenti con quello stereotipo italiano che gli yankees premiano da 65 anni. Dopodiché, se per vincere un Oscar bastasse riproporre uno stereotipo, come dire, provateci voi. Parliamo di una pellicola che in Italia è stata anche aspramente criticata (secondo criteri e risvolti che all’estero non capirebbero) ma è anche vero che condividere queste critiche è perfettamente compatibile con un profondo apprezzamento del film: è il caso di chi scrive. La grande bellezza è un film visto e rivisto, discusso e ridiscusso, e i film servono a questo. Anche a questo. Ma ricominciamo dalla premiazione. Sorrentino è andato in bambola: è l’unica umana spiegazione per un tizio che vince un Oscar e poi si mette a ringraziare Maradona, che peraltro è argentino e gli italiani mediamente odiano: il che era una nota autobiografica perché Sorrentino è napoletano, certo, ma per l’americano medio sarà suonato come quando la Loren gridò «Robbberto» a Benigni: un cordiale rinforzino del cliché che ci vuole tutti un po’ Fellini e tutti un po’ terroni, ma beninteso, eleganti. Dunque italiani, Sicilia, mafia, ladri di biciclette, poveri, straccioni, ma anche Napoli, pizza, spaghetti, sciuscià, Dopoguerra, mediterraneo, pelle e occhi scuri, tarantelle e mandolini, ma anche Roma, Colosseo, la ciociara, la mamma, la Madonna, e santi, monumenti, pittori, musicisti, artisti, teatranti, casanova, saltimbanchi, pagliacci, stilisti, buffoni, clown, e la bellezza, come no, la grande e immortale bellezza. Bene, nel film di Sorrentino questa roba c’è tutta. Ed è la ragione per cui il regista italiano anche più bravo del mondo, se fosse di Pordenone, non vincerebbe mai un Oscar. Il nostro ingenuo errore è stato guardare La grande bellezza come se fosse un film italiano pensato per un pubblico italiano: quando, invece, è una pellicola che fin da bambina è stata pensata e programmata per vincere l’Oscar. Provate e riguardare il film in quest’ottica - oppure guardatelo e basta, se non l’avete visto: lo fanno questa sera su Canale 5 - e l’operazione vi parrà più chiara. Meglio ancora, provate a riguardare il film immaginando di essere americano: che cosa volete che gliene freghi a un americano se certe feste a Roma esistano effettivamente o meno? Se certi chirurghi plastici esistano o meno? Se le performance stile Marina Abramovich siano credibili? Che gli importa se il film manchi o meno della contaminazione politico-editoriale-letteraria classica romana, impastata di cinismo millenario e imbucata da personaggi spesso impagabili? Che ne sa, un americano, della Rai? Come può sapere se il personaggio della miliardaria comunista, cornuta e con piscina, sia credibile? Questi sono problemi da spaccacapelli italiani, da cinefili o critici nostrani: un americano non sa - e non gl’importa - che nel film mancava sua maestà l’indifferenza, la vacuità, il forzato disincanto dei romani anche di fronte ai pochi incanti che restano e che non sanno riconoscere, non sa che nel film mancava l’ipocrisia esibita, la grande commedia della piaggeria capitolina: non lo sa e non gl’importa, perché è americano. A un americano è sufficiente che le proiezioni di Sorrentino, perlomeno quelle della bruttezza, coincidano con le sue: dunque il dominio della coca, le stronze, i parassiti, le attricette, gli scrittorucoli, «le ricche», gli industrialotti, i cardinali da talkshow, il perverso paese dei balocchi coi suoi maghi e le giraffe e i lanciatori di coltelli, tutta una bruttezza molto occidentale e internazionale e scolastica, perché di cocainomani e puttane e mafiosi non possediamo certo l’esclusiva. Sorrentino fa vedere l’immagine della Costa Concordia perché l’hanno vista in tutto il mondo: a noi italiani non ce ne frega niente. Sorrentino, pure, non si sofferma sulla Roma finanziariamente fallita, sulla cattiva amministrazione, sulla spazzatura, la maleducazione, la stretta attualità: non gli serviva, erano minuterie da italiani. Roma è tra le città più antiche della Storia (la battono Atene e Gerusalemme) e al pubblico di Hollywood sai che gliene frega di Ignazio Marino: meglio la bellezza eterna, e scusate se è poco: le silenziose albe romane con la loro luce radente e fotografica, i dipinti e le statue della Roma segreta, gli scorci mozzafiato, le passeggiate, i giardini degli aranci, ciò che fa di Roma una delle città più belle del mondo e forse la più immortale. Non è che servisse un documentario, per saperlo. Serviva una vaga, evocativa, suggestiva visione da addensare di libere e personali interpretazioni. Il film di Sorrentino non vuol dire granché: il trucco è lasciare il cerino in mano a noi. E a un americano, nel contemplare La grande bellezza, fa gioco anche lo stile registico rococò che tanto ha inorridito i puristi, ma che - confessiamo - è piaciuto tanto anche a noi provinciali, patiti di Sergio Leone: il manierismo compiaciuto, i movimenti di macchina, l’abuso dei numeri di regia, la fotografia contrastata, le luci stile occhio di bue, e le carrellate, i dolly plananti, gli zoom e i rallentatori. Che volete: a noi piace. La grande bellezza mica poteva girarla Werner Herzog. L’ha girata un napoletano che ha dedicato l’Oscar a Maradona, com’era lecito attendersi da un Paese geniale e cialtrone. di Filippo Facci

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