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Cesare Prandelli, le dimissioni per l'attacco dei "senatori" azzurri

di Andrea Tempestini domenica 29 giugno 2014

4' di lettura

Nessun esercizio retorico, nessun retroscena, nessuna analisi potrà cambiare lo scenario: giusto o sbagliato che sia, per l'eliminazione dai Mondiali brasiliani i principali imputati sono due, Cesare Prandelli e Mario Balotelli. I motivi sono ormai arcinoti: le scelte del primo, le bizze del secondo. Però al quadro complessivo va aggiunto qualche elemento. Si ritorna ancora all'intervallo di quella maledetta partita tra Italia e Uruguay, all'intervallo che è stata la prima parte della resa dei conti. Si ritorna ai mugugni di Balotelli e ai rimbrotti di Prandelli all'attaccante-Godot. Le cronache hanno rivelato dell'alzata di scudi dei senatori, degli juventini e di Gigi Buffon su tutti, entrati metaforicamente a gamba tesa su Mario. Un dubbio: era il caso di farlo? Non avrebbe dovuto pensarci solo e soltanto Prandelli? Con la loro "mozione di sfiducia", i senatori non hanno finito per rendere irrespirabile un'atmosfera già tesa? Forse avrebbero potuto farlo a fine partita, a Mondiali finiti. Forse non lì, in quello spogliatoio, in quel modo che - si dice - ha turbato profondamente la squadra. Questo - sia chiaro - senza nulla togliere ai demeriti di Balotelli. E di Prandelli, che avrebbe potuto, e dovuto, gestire meglio la situazione. Le cose cambiano - Ma non ci sono soltanto i dubbi sull'opportunità dell'offensiva di quelli che la semplificazione giornalistica chiama "senatori". Ci sono anche i fatti, rivelati dalla Gazzetta dello Sport, le tappe, le parole e le critiche che hanno portato alla sostanziale sfiducia di Cesare Prandelli. Secondo la rosea, di fatto, il Ct non si è dimesso per il risultato disastroso, per le polemiche sui soldi o per chi gli remava contro in Federazione: semplicemente, Prandelli è stato "dimissionato" proprio dai senatori. Il percorso è lungo, inizia quattro anni fa, quando l'ex mister della Fiorentina propone il suo nuovo progetto basato su due principi cardine: tenere palla per attaccare sempre e comunque e il codice etico. Due punti accolti con entusiasmo anche dalla vecchia guardia azzurra. E così via, per un Europeo e una Confederations Cup che cementano il gruppo. I problemi, però, iniziano una volta raggiunta la qualificazione ai Mondiali. Spunta il secondo imputato, Mario Balotelli: torna in azzurro. Decide Prandelli, è il capo, lo deve fare. Eppure Mario, complice il suo passato di poco impegno e molte polemiche in nazionale, non è accettato di buon grado da chi invece per la maglia azzurra ha sempre dato tutto, cuore, muscoli e polmoni, senza pretendere né una copertina né una pacca sulla spalla. La rottura - Il secondo fattore destabilizzante è Antonio Cassano, che destabilizzante lo è per natura. Prandelli decide di portarlo in Brasile: lui sarà il jolly, lui il numero 10 che, all'occorrenza, dovrà trovare la giocata di classe. Fantantonio viene arruolato nonostante le riserve dei senatori juventini, memori dell'Europeo 2012, l'Europeo delle cassanate. Balotelli e Cassano dentro (più Insigne, scelta particolare), fuori Pepito Rossi, Gilardino, Destro, Toni. Non è tanto una questione di valori tecnici, ma di indole, di spirito: vengono tagliati fuori dal mondiale quei giocatori che per comportamento, abnegazione e dedizione alla causa sono ammirati da tutti, e sono ammirati soprattutto da quei giocatori che costituiscono la spina dorsale dell'Italia. Qualche malumore, in tempi più recenti, sorge per la scelta del resort di Mangaratiba: troppo poco entusiasmo, troppe mogli e parenti. Quindi la sorpresa all'esordio con l'Inghilterra: in campo, al fianco di Andrea Pirlo, c'è Marco Verratti. Eppure Pirlo, da anni, era abituato ad avere in mano lui e soltanto lui le chiavi del centrocampo azzurro. In parallelo gli allenamenti: Cassano, Balotelli e Insigne trotterellano, i senatori si incazzano. Loro, che anche in allenamento sputano il sangue, vogliono che tutti sputino quel sangue, soprattutto se c'è in ballo un Mondiale. L'esplosione - Dopo l'Inghilterra, la Costa Rica e l'ovvio carico di dubbi e malumori che la squadra si è portato via da quella partita. Poi l'Uruguay, l'Italia spuntata, con Balotelli indisponente e impalpabile. Si arriva alla resa dei conti. Si arriva all'intervallo di quella maledetta partita con l'Uruguay. La tensione esplode. Forse con 45 minuti di anticipo, ma esplode. Mario risponde a Prandelli, la vecchia guardia si fa sentire: grida Buffon, grida De Rossi, gridano gli altri "vecchi". Poi il secondo round, davanti alle telecamere, mentre Balotelli pensa soltanto ad andarsene da solo sul pullman, sempre più lontano da quella squadra: le accuse, sempre di Buffon e di De Rossi, a "chi in campo non c'è" e alle "figurine". A Balotelli e a Cassano. Ma l'attacco non era soltanto a Mario e ad Antonio. L'attacco era rivolto anche a Prandelli, alle sue scelte, al progetto cambiato in corsa. E quell'offensiva scatenata negli spogliatoi ancor prima che finisse la partita ha segnato il destino del Ct: il "patto" siglato quattro anni prima era rotto, i senatori della squadra - colpendo altri per colpire anche lui - lo avevano sfiduciato. Prandelli sapeva che avrebbe potuto finire così. E aveva già pensato alla sua successiva e immediata mossa: le dimissioni, dopo essere stato "dimissionato".

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