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Facebook, Google, Amazon, Apple: i big del web si fanno stato

Sportelli online per l'acquisto di azioni, compagnie aeree, monete virtuali, energia: così Internet prepara la "secessione"
di Giulio Bucchi domenica 10 febbraio 2013

3' di lettura

di Ugo Bertone Prima la musica, poi l’editoria e le telecom. Ora tocca alle infrastrutture fisiche e alla finanza. Il braccio di ferro tra new e old economy, che tanto appassionava il mercato pochi anni fa, ha un vincitore: Google, Apple, Amazon avanzano tra le macerie del vecchio mondo, facendo incetta di beni fisici. Al banchetto partecipano un po’ tutti. Anche Microsoft, dopo aver in pratica acquistato Nokia per contrastare Motorola conquistata da Google, questa settimana ha finanziato l’operazione con cui Michael Dell ha ritirato la sua azienda da Wall Street.  Ma l’offensiva dei signori dell’economia virtuale punta a ben altro. Tra non molto, a giudicare dalle notizie in arrivo, si prenderà l’aereo in aeroporti targati Google, consumeremo energia elettrica Apple (o Google) e faremo la spesa con gli spiccioli di Amazon. In attesa di una banca virtuale gestita da Apple. Nel frattempo, è possibile comprare o vendere titoli attraverso Loyal 3, una piattaforma che permette di operare in Borsa anche per lotti minimi attraverso Facebook, senza passare da banche o altri intermediari.  Insomma, forti del cash esentasse o quasi, accumulato in questi anni, i signori della realtà virtuale stanno avanzando ovunque. Partiamo da una notizia piccola in sé: la nascita a San José,  California, del Googleaeroporto. La città californiana, infatti, ha dato il via libera al progetto di un nuovo terminal nel Mineta San José International Airport   riservato alla flotta aerea del più importante motore di ricerca del mondo,  che comprende un Boeing 767 e un 737. Si tratterà di un investimento da 82 milioni di dollari che non solo  frutterà alla città 2,6 milioni di dollari all’anno per l’affitto dell’area (quasi 120 mila metri quadrati)   su cui sorgeranno anche ristoranti e spazi commerciali ma permetterà di creare 236 posti di lavoro, moneta che scarseggia in California come nelle vecchia Europa. Noccioline, per il colosso di Mountain View. Ma anche così, con un aeroporto intitolato al logaritmo che ha cambiato il mondo, si segnala la staffetta del potere tra il vecchio e il nuovo mondo. Ben più ambiziosa la sfida lanciata da Jeff Bezos in un terreno riservato da sempre agli Stati: battere moneta. E la moneta non manca nel gigantesco emporio virtuale di Jeff Bezos. A partire da maggio, sull’Appstore della società di Seattle sarà possibile comprare gli Amazon Coin, moneta virtuale che servirà per acquistare giochi, applicazioni od altri prodotti virtuali su Kindle o sui tablet  nel regno delle meraviglie di mister Jeff. Una sfida  a metà perché, almeno per ora, non si potranno  usare  i dollari di Amazon per fare acquisti «fisici». I Bezos-dollari serviranno solo per comprare giochi o applicazioni varie. Ma sarà comunque la prima  crepa nel monopolio della moneta. Crepa che potrebbe estendersi a un altro pilastro, dell’economia tradizionale: la banca.  L’indiziata, in questo caso, è la Mela di Apple. Già un anno fa , la società di ricerca Kae ha condotto un sondaggio in Usa e nel Regno Unito con questa domanda: aprireste un conto presso la banca on line di Apple? Il 43% degli intervistati si è detto pronto ad aprire un conto presso Apple, tradendo la vecchia banca, di cui ci si fida sempre meno. Al contrario, non solo Apple, con i suoi 120 miliardi in cassa, è considerata più solida ed affidabile delle banche. Ma il pubblico ha più fiducia nelle competenze tecniche dell’impero di Jobs  che non nell’e-banking.  La spallata, insomma, potrebbe essere vicina. Ma il condizionale è d’obbligo. Il successo genera invidia e nemici. E così cresce il numero dei critici che si domandano se e in che misura le varie Google o Apple paghino le tasse. In realtà, grazie a una complessa ragnatela di domicili fiscali tra Nevada (ove le tasse societarie sono inesistenti) Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Isole Vergini, Apple è riuscita lo scorso anno a pagare 2,4 miliardi di imposte su 34 miliardi con un’aliquota inferiore al 10 per cento. In questi anni,  la Mela ha risparmiato almeno 74 miliardi in imposte, più o meno l’intero pil del Kenya. Più o meno stessa situazione per Microsoft o Google, il cui ex ceo Eric Schmidt, che proprio ieri hanno annunciato la vendita di titoli per 1, 9 miliardi di dollari,  si è a suo tempo difeso sottolineando che «ci siamo semplicemente avvalsi delle leggi in vigore». Vero, ma le cose potrebbero cambiare se scendessero in campo le lobbies della finanza.  Forse il vero scontro tra i giganti deve ancora avvenire.

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