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Con Gherardo Colomboin Rai arriva Il Grande Sbirro

Ritratto dell'ex magistrato del pool di Manipulite che la sinistra ha candidato per il cda della tv pubblica
di Matteo Legnani domenica 24 giugno 2012

4' di lettura

Gherardo Colombo è un personaggio pericoloso o è il personaggio giusto per una Rai che sia divisa tra Saviano e Vangelo Vivo, dipende: mentre a scriverlo solamente a una sinistra  genericamente «perbene» e moralmente irreprensibile, senz’altro, dimostra che a non conoscerlo è anzitutto chi l’ha candidato. Colombo è l’archetipo dell’intellettuale appartenente a una sinistra più esistenziale che politica: non è mai stato una vecchia volpe alla Gerardo D’Ambrosio o alla Giancarlo Caselli, ha sempre spartito poco con la cinica spietatezza di un Piercamillo Davigo, non ha mai avuto il magniloquente senso dello Stato di un Francesco Saverio Borrelli, peggio che mai potrebbe possedere una casa alla Maddalena come Francesco Greco e altra sinistra forense. Colombo è sempre parso convinto che una stagione dei migliori dovesse sbaragliare prima o poi i peggiori, e che per questo, quelli come lui, dovevano lavorare.  Colombo pensa che in Italia manchi una cultura delle regole anche tra la gente comune - come è vero - e pensa che l’unica cosa da fare sia insegnarla alle giovani generazioni: ecco perché nel 2007 ha lasciato la magistratura e si è messo a viaggiare per l’Italia. Già sulla rivista di Magistratura democratica, nel 1983, annotava che «alla magistratura è stata devoluta una serie di compiti che investono più la funzione politica che quella giurisdizionale», inoltre «gli spazi lasciati aperti dall’insufficienza dell’opposizione politica sono stati essi pure, necessariamente, occupati dall’intervento giudiziario». Necessariamente. Scriveva questo con compiacimento, non con preoccupazione.  Con tanto spirito di servizio si occupò dello scandalo dei fondi neri Iri e della P2, anche se a vederlo non l’avresti detto: i jeans stinti, la Lacoste, le scarpe da vela consumate, il vizio della pipa, poi delle sigarette, poi delle dita nel naso. Lui e altri magistrati si riunivano nel circolo Società civile (tra questi Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo, Giuliano Turone, Armando Spataro e altri che per statuto non fossero dei politici) e i magistrati invischiati col potere non piacevano a nessuno: è per questo che all’alba di Mani pulite Colombo non voleva saperne di Di Pietro, uno che aveva la fama che aveva. Poi accettò, e se ne stette all’apparenza defilato - si occupava di rogatorie - ma il suo ruolo fu essenziale nello stilare la legislazione materiale di Mani pulite, quel rito ambrosiano fatto di carcere facile, libertà per chi confessa e fa delazione, patteggiamenti come regola, verbali utilizzati come prove, soprattutto benedizione di un nuovo Codice ormai ridotto a brandelli.  Il «comunismo» di Colombo è tutto in questa sua frase: «È vero che la riservatezza va tutelata, ma quando il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che vada sacrificato il secondo al primo». Badateci: quel «progredire di tutti» sarebbe la giurisdizione da lui rappresentata mentre «l’interesse particolare» sarebbero i diritti del singolo. Lampante. Purché il progredire di tutti non si contamini con il potere: Colombo, a quanto pare, non si fidava neppure di Giovanni Falcone quando lavorava al Ministero della Giustizia. Ecco perché Ilda Boccassini, pochi giorni dopo la strage di Capaci, urlò: «Tu, Gherardo, che diffidavi di Giovanni, che sei andato a fare al suo funerale?». Non si fidava. Non si fidava in generale: è per questo che per acquisire i bilanci dei partiti, nel febbraio 1993, mandò un finanziere a bussare alla Camera anziché acquisirli in una qualunque libreria. E quando si tentò di varare il decreto Biondi per limitare le carcerazioni, nell’estate 1994, Colombo fu in prima fila nel redigere un documento deflagrante che poi Di Pietro lesse davanti alle telecamere. Anche la famosa frase sulla Bicamerale «ricattabile», nel febbraio 1998, in fondo non era dissimile da frasi già dette altre volte.  Sullo sfondo sempre lo stesso spettro: il potere, quel potere che nel suo libro «Il vizio della memoria» (1996) ebbe a esorcizzare così: «L’unica speranza di salvezza si fonda sul disconoscere l’uguaglianza: chi ha più potere è diverso dagli altri. Tantopiù se può condizionarli, comandarli, soggiogarli. Il potere assomiglia alla condizione di Dio. Tuttavia alla fine si è nudi. L’inconsistenza, la fragilità, la solitudine appresa nell’affacciarsi al mondo dei grandi, esistono ancora, sotto l’anestesia del potere. E si muore lo stesso».  Ma a vanificare la stagione dei migliori, a tradire Gherardo Colombo, non fu il potere. Fu proprio chi, teoricamente, doveva subirlo. Fu, cioè, la società civile, la famosa gente. Colombo lo ha ripetuto nel marzo 2007 sul Corriere della Sera: «Il maresciallo della finanza, il vigile dell’annonaria, il primario, l’ispettore dell’Inps, i genitori dei figli alla visita di leva... ». Sono loro, quelli da educare. Sono loro, che non hanno cultura delle regole. Non esistono migliori, ma solo interessi e corporazioni: e «la magistratura», disse ancora al Corriere, «mi sembra tutto sommato la migliore». Ma c’è un mondo, fuori: Gherardo Colombo si avvia a migliorarlo. Per anni ha cercato di insegnare  ai giovani e ha lasciato che i giovani andassero a lui: non solo ammanettati, cioè. Oggi ha una possibilità più grande, se è vero che la Rai resta la prima azienda culturale del Paese. Prepariamoci, nel caso, non al Grande Fratello. di Filippo Facci     

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