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Presidente, fermi i suoi pm

Anche per Ingroia i magistrati hanno "un ruolo che va molto al di là di quanto ci poteva essere suggerito dallo studio della Costituzione". Per Napolitano è il momento di mettere un freno alle loro invasioni di campo
di Giulio Bucchi venerdì 31 agosto 2012

4' di lettura

di Maurizio Belpietro Panorama ha alzato il velo sulle telefonate del presidente della Repubblica. Il mistero di cui si discute da mesi è spiattellato dal settimanale diretto da Giorgio Mulè nel numero in edicola questa mattina. In esso sono ricostruite le conversazioni che il capo dello Stato avrebbe intrattenuto con alcuni degli indagati dalla Procura di Palermo, in particolare con Nicola Mancino. Al telefono, Giorgio Napolitano si lascerebbe andare a pesanti giudizi nei confronti di una parte della magistratura palermitana e dell’apparato mediatico  che la sostiene, oltre ad apprezzamenti non proprio lusinghieri nei confronti di Antonio Di Pietro e Silvio Berlusconi.   Le parole origliate dai pm, a quanto si capisce, sono tali da mettere in forte imbarazzo l’inquilino del Colle, il quale vedrebbe trascritti nero su bianco i propri reali convincimenti, fuori dalle dichiarazioni ufficiali imposte dal cerimoniale. Ma al di là del disagio di veder riprodotto il proprio pensiero sul Cavaliere e anche sul leader dell’Italia dei Valori (facile immaginarsi cosa pensi il vecchio burocrate comunista dei due), ciò che rischia di essere politicamente devastante è il giudizio sui pubblici ministeri, espresso non solo dalla più alta carica dello Stato, ma dal presidente del Consiglio superiore della magistratura, ossia dall’uomo alla guida dell’organo che esercita l’azione disciplinare nei confronti delle toghe. Se Napolitano ha una pessima opinione dei pm di Palermo, se cioè li reputa più dei militanti politici che dei funzionari al servizio della giustizia, perché finora è stato zitto? Come mai non ha sollecitato l’intervento del ministro competente? Perché, soprattutto, non ha inviato allo stesso Csm un messaggio o una segnalazione, come invece altri presidenti della Repubblica in passato hanno fatto?   Scoprire infatti che il capo dello Stato non la pensa molto diversamente da noi in materia di esercizio dell’azione penale è una notizia che ci lascia basiti. Con la differenza che noi ciò che pensiamo lo scriviamo e lo dichiariamo a voce alta, mentre il presidente della Repubblica lo bisbiglia al telefono, ma poi si guarda bene dal trarne le conseguenze che il suo mandato gli imporrebbe.   Proprio ieri, a Pontremoli, abbiamo dibattuto con Antonio Ingroia, il sostituto procuratore di Palermo nel mirino degli strali dell’uomo del Colle. Presentando il suo ultimo libro, il magistrato che incarna il pool antimafia palermitano ha ammesso che il protagonismo politico e sociale che negli ultimi trenta o quarant’anni ha caratterizzato la magistratura «è un’indubbia anomalia rispetto al panorama delle altre democrazie occidentali», giustificando la deviazione con la necessità di dover svolgere un ruolo di supplenza a causa dell’assenza della politica. In pratica, i pm fanno quello che fanno, anche politica, perché la politica non assolve alla propria funzione, o per lo meno non a quella che i giudici vorrebbero che assolvesse. Così oggi, ancora per ammissione dell’aggiunto di Palermo, la categoria togata ha assunto, volente o nolente, un ruolo nevralgico nelle vicende pubbliche e politiche del nostro Paese. «Un ruolo che va molto al di là di quanto ci poteva essere suggerito dallo studio dei libri e della Costituzione».   Ingroia ammette il suo ruolo politico fuori da quello previsto inizialmente dalla nostra Carta costituente. Cosa che evidentemente è ben nota anche allo stesso Napolitano, il quale parla delle iniziative della Procura palermitana. Dunque, qual è la conclusione del capo del Csm? Che cosa ha messo in atto per porre fine all’anomalia? Tace e, se parla, lo fa in privato. Tuttavia, è inutile nascondersi: il tema rimane quello dei rapporti tra politica e magistratura e delle invasioni di campo di quest’ultima. Che ci sia Berlusconi o qualcun altro, la questione è la stessa da vent’anni.   E a questo proposito converrà ricordare la confessione di Reginald Bartholomew, ex ambasciatore americano in Italia negli anni di Mani Pulite. Il diplomatico, che il Corriere definisce eroico per il ruolo che svolse in Libano, alla Stampa, prima di morire, ha confidato il suo pensiero a proposito dell’inchiesta milanese. Secondo il suo giudizio, nella foga di combattere la corruzione politica dilagante, i magistrati del pool andarono ben oltre «violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia». Bartholomew ricorda quando fece incontrare il giudice della Corte Sprema americana Antonin Scalia con  sette giudici italiani. Scalia disse che il «comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati, andando contro i princìpi cardine del diritto anglosassone». Vent’anni dopo, stiamo ancora discutendo degli stessi temi. Di come le inchieste vengono costruite, di come si mettono in galera le persone, di indagini basate su teoremi ma non su prove, sulle intercettazioni e altro. Napolitano, oltre che al telefono, non ha nulla da dichiarare? maurizio.belpietro@liberoquotidiano.it

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