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Il contratto Silvio-Lega

Le richieste padane non turbano il Cav, che punta tutto su un governo delle riforme. Bossi farà la sua parte fino al 2013, quando si riapriranno i giochi per il premier
di Albina Perri sabato 10 aprile 2010

3' di lettura

di Maurizio Belpietro-  La scorsa settimana, sull’onda del successo alle Regionali, avevamo ipotizzato lo sbarco di un leghista a Palazzo Chigi. Non ora, ovviamente, ma in un futuro prossimo, quando Silvio Berlusconi libererà il posto magari per occupare quello più in alto, sul colle del Quirinale. L’ipotesi poteva apparire fantapolitica, ma è bastata una settimana per capire che non c’era nulla di folle nella previsione, tanto è vero che il ministro Calderoli, uno più furbo di quanto dia a credere, l’ha fatta propria e per il 2013 ha ipotizzato un leghista o un amico della Lega a capo del governo. Anche a Maroni, il più efficace ministro dell’Interno che si sia visto negli ultimi trent’anni, l’idea di un presidente del Consiglio federalista non pare tanto campata in aria, al punto da accreditarla in un’intervista al Corriere in cui il responsabile del Viminale rivendica per Bossi un ruolo da regista delle riforme istituzionali. Anche a Maroni, il più efficace ministro dell’Interno che si sia visto negli ultimi trent’anni, l’idea di un presidente del Consiglio federalista non pare tanto campata in aria, al punto da accreditarla in un’intervista al Corriere in cui il responsabile del Viminale rivendica per Bossi un ruolo da regista delle riforme istituzionali. Le mosse e le dichiarazioni non sono casuali. Il risultato ottenuto alle ultime Amministrative non spingerà la Lega a litigare con gli alleati per avere nuovi incarichi. Da quel che si capisce i seguaci del Carroccio sono pronti a rinunciare alla guida dell’Agricoltura e anche la prenotazione della poltrona di sindaco di Milano appare più funzionale a sbarrare la strada a chi vuol eliminare la Moratti che una rivendicazione vera e propria.  Come spiegavamo all’indomani della conquista di Piemonte e Veneto, gli emissari del Senatur non hanno alcuna intenzione di alimentare l’instabilità dentro l’esecutivo. A loro Berlusconi va bene così e in fondo gli andrebbe bene anche Fini se la smettesse di inventarsi proposte bizzarre come il voto agli immigrati. Ciò che preme ai leghisti è far passare il federalismo fiscale e la conflittualità non agevola il progetto. La strategia dell’armonia, anzi, ha bisogno di aperture anche a sinistra e per questo Maroni e Calderoli hanno iniziato una lenta ma costante opera di attenzione nei confronti degli esponenti del Partito democratico. Che i leghisti siano interessati al federalismo fiscale non deve però far pensare che la loro azione abbia un  orizzonte limitato. Sul Carroccio c’è qualcuno che studia da premier e si prepara al momento in cui il partito si sarà radicato anche fuori dai confini della Padania. Del resto le truppe di Bossi non sono più viste come un’accozzaglia di buzzurri cresciuti a pane e stereotipi anti-meridionali. Il gruppo dirigente, limati gli eccessi verbali, è infatti stimato e accreditato in ambienti diversi, che vanno dalla Chiesa (ricordate l’incontro tra Bossi e il cardinal Bertone in pieno caso Boffo?) all’imprenditoria e alla finanza. Insomma, la Lega si prepara alla fase due, che è quella non di un partito regionale seppur forte e radicato, ma di un movimento nazionale che vuole esportare l’efficienza nordista anche nel resto del Paese. La secessione tanto temuta dalla sinistra e dall’Udc è ormai archiviata, oggi ciò su cui puntano Bossi e i suoi è l’annessione:  visto che non potrebbero mai staccare il Nord dal resto d’Italia - cosa che, sondaggi alla mano, neanche gli elettori in camicia verde desiderano - non resta che conquistare la guida del Paese.  In fondo Maroni ha dimostrato che da leghisti ci si può occupare di legalità e sicurezza anche a vantaggio del Sud. Perché non provarci anche con il resto?   

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