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L'editoriale

di Maurizio Belpietro
di Tatiana Necchi mercoledì 30 giugno 2010

3' di lettura

In Italia le sentenze che hanno per oggetto i politici sono come i risultati elettorali: ognuno può interpretarle come vuole. È raro che ci sia una condanna netta: quasi sempre è a metà. E così pure le assoluzioni. Nel caso Andreotti, il senatore fu discolpato ma si riconobbe che nel passato aveva avuto rapporti coi mafiosi, sentenziando però la non punibilità per prescrizione del reato. Il divo Giulio esultò, la procura anche, e a distanza di anni tutti cantano vittoria. Nel caso di Marcello Dell’Utri finirà allo stesso modo. I giudici palermitani, anziché assolvere l’imputato per una colpa indimostrata e un reato discutibile, concorso esterno in associazione mafiosa, hanno preferito condannarlo, stabilendo al tempo stesso che i fatti risalgono a un periodo antecedente il 1992. La data, ovviamente, non è casuale. Se il senatore frequentava picciotti negli anni Settanta ma smise di farlo in quelli Novanta, il reato potrebbe anche cadere in prescrizione, perché tra breve saranno trascorsi vent’anni dai fatti. In pratica, i giudici pur condannando Dell’Utri lo salvano e insieme a lui assolvono anche Forza Italia, il partito che egli ha contribuito a fondare. Insomma, una sentenza che lo stesso pm ha definito salomonica, mentre l’imputato ha preferito dire che è pilatesca. Noi aggiungiamo che è solo un po’ comica, perché un mafioso part time, che è picciotto ma appena appena, ci sembra uno di quegli espedienti da commedia all’italiana. Ciò detto, non ci aspettavamo nulla di diverso. Innanzi tutto perché in un ambiente chiuso come quello giudiziario è difficile che delle toghe abbiano il coraggio di mettersi contro altre toghe, quanto meno in processi che hanno risonanza. Se poi il tribunale che deve decidere è quello di Palermo e la Procura che si deve sbugiardare è circondata da un’aura di intoccabilità come quella di Ingroia, diventa impossibile. A questo si aggiunga che la corte è stata oggetto di una serie di pressioni preventive che non hanno eguali. I giornali di riferimento della Procura, vale a dire il Fatto quotidiano e Repubblica, si sono incaricati di avvertire i giudici, descrivendoli come poco indipendenti e senza evitare riferimenti alle frequentazioni dei figli del presidente del collegio. Avessimo riservato noi un simile trattamento a una toga, ci avrebbero accusato di intimidazione se non peggio. Ma nel caso siciliano ciò non è avvenuto. Al contrario, l’Associazione magistrati, sempre pronta a difendere ogni collega, stavolta si è spaccata, lasciando intuire cosa sarebbe potuto accadere in caso di assoluzione con formula piena. Visto il clima in cui è maturata, la sentenza non poteva dunque che essere salomonica o pilatesca, contentando sia  la procura che l’imputato. Certo, a ben leggerlo e nonostante condanni a sette anni di carcere Marcello Dell’Utri, il dispositivo smonta anni di indagini e fanfaluche dei pm palermitani. Delimitando i perimetri del reato entro il 1992, di fatto nega ogni relazione tra la mafia e la discesa in campo di Berlusconi, che poi era il vero obiettivo del processo. Soprattutto liquida come balle sesquipedali le rivelazioni del pentito tardivo Gaspare Spatuzza e del collaboratore divo Massimo Ciancimino, la cui testimonianza non è neppure stata presa in considerazione tanto è fondata. In pratica la responsabilità nelle stragi e i collegamenti tra mafia e Forza Italia vengono archiviati senza rinvio e l’ennesimo tentativo di collegare il Cavaliere alle cosche finisce dove è giusto che stia: nel cestino della carta straccia. Rimangono quei sette anni di carcere per cattive frequentazioni, le quali, in un Paese normale, non dovrebbero essere oggetto di processi né tantomeno di sanzioni. Ma, visto che non ci hanno pensato i giudici, a levare la condanna potrebbe pensarci non la Cassazione, bensì la prescrizione, quarto grado di giudizio di un Paese che non ha giudizio.

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