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Strage di Sinnai, la memoria manipolata: esperti denunciano errori e verità sepolte

martedì 11 novembre 2025

4' di lettura


Dopo 34 anni, la strage di Sinnai, l’omicidio di tre pastori ammazzati in provincia di Cagliari l’8 gennaio 1991, è tornata a essere un cold case, un caso irrisolto. Sì, perché per il triplice omicidio fu condannato in via definitiva all’ergastolo Beniamino Zuncheddu, indicato dall’unico sopravvissuto e testimone come l’autore del raid. Dopo 32 anni di carcere, il 26 gennaio 2024, Zuncheddu è stato assolto in seguito alla revisione del processo. Il programma Psiche Criminale, in onda sul canale 122 Fatti di Nera, si è occupato del caso divenuto il più emblematico errore giudiziario della storia italiana.

Tutto ebbe inizio martedì 8 gennaio 1991, quando tre persone furono uccise a colpi di fucile da un uomo che, giunto in un ovile a bordo di uno scooter, assaltò gli uomini e fece fuoco all’impazzata. Rimasero uccisi Gesuino Fadda, 56 anni, suo figlio Giuseppe, 24 anni, proprietari di quell’ovile, e il loro dipendente Ignazio Pusceddu, 55 anni. Il genero di Gesuino Fadda, Luigi Pinna, 29 anni, rimase invece gravemente ferito. Fu proprio la sua testimonianza a inchiodare Zuncheddu, all’epoca 26enne di Burcei, anche lui allevatore.

Tra le famiglie Fadda e Zuncheddu si erano verificati contrasti, anche aspri, sfociati nell’uccisione di bestiame a vicenda. Una possibile faida tra famiglie “rivali”, dunque, poteva aver scatenato quel raid a fucilate. In fase di indagini preliminari, però, la testimonianza di Pinna non era genuina ed era stata influenzata, come è emerso in maniera chiara solo dopo 32 anni, nel corso del processo con cui la difesa di Zuncheddu ha chiesto e ottenuto la clamorosa revisione.

Probabilmente Pinna si era lasciato influenzare da un poliziotto che, prima di raccogliere le dichiarazioni nel suo interrogatorio, gli aveva mostrato alcune foto, tra cui proprio quella del pastore rivale. Una testimonianza che portò alla condanna all’ergastolo di Zuncheddu. Con la pena ormai scontata quasi del tutto, la difesa riuscì a dimostrare ciò che sosteneva da anni: Luigi Pinna era stato “imbeccato” nel suo riconoscimento, visto che inizialmente aveva dichiarato di non ricordare l’aggressore, per poi cambiare versione e accusare Beniamino Zuncheddu.

Il 14 novembre 2023 si svolse l’udienza decisiva, con il confronto tra il sopravvissuto Luigi Pinna e l’agente di polizia Mario Uda. Le dichiarazioni di Pinna confermarono la versione della difesa: a mostrargli la foto fu l’agente di polizia, che però negò l’accaduto. La testimonianza convinse i giudici del clamoroso errore giudiziario e, dieci giorni dopo, fu concessa la libertà all’innocente Beniamino Zuncheddu, poi assolto in via definitiva due mesi dopo.

“Inizialmente Pinna incolpò Zuncheddu – ha spiegato lo psicologo Emiliano Fabbri – solo perché gli fu mostrata la fotografia in cui lo riconobbe. Una vicenda che si inserisce nella rivalità tra pastori in Sardegna, scaturita dalla gestione dei pascoli e del bestiame, che era molto accesa. Bisogna capire quali potessero essere le problematiche, perché si partì con la convinzione che fosse stato lui. Inoltre, il silenzio in quell’ambiente è stato decisivo, perché nonostante gli scontri tutto rimaneva confinato al mondo della pastorizia. Il delitto maturò in quell’ambito rurale, per vendetta personale.

Gli inquirenti erano convinti che fosse quello il colpevole, e le indagini furono condotte senza valutare a 360 gradi altre piste. Chi è sottoposto a interrogatorio spesso si sforza e si convince che quella persona proposta sia davvero il colpevole. Si volle indagare a stretto raggio sulle frequentazioni di quei gruppi di pastori, che vivevano in un contesto sociale e culturale ristretto, senza legami al di fuori del lavoro. Si indagò su quel piccolo mondo, fatto di clan rivali, dove la gestione dei pascoli poteva alimentare odio e ritorsioni. Poi ci furono sicuramente errori investigativi e giudiziari che portarono alla condanna dell’imputato, basata unicamente sulla testimonianza di Pinna, poi ritenuta inattendibile.

Una persona che subisce un’aggressione così violenta, che vede morire altre persone, è vittima di uno shock fisico e mentale di grande intensità e, nelle fasi immediatamente successive, non ha piena lucidità. Inoltre, all’epoca la valenza delle prove scientifiche era molto limitata. Non avevamo strumenti e organizzazione adeguati. Successivamente, il condizionamento psicologico del testimone è stato fortissimo, e dunque prove e testimonianze non erano affatto oggettive”.

“Il tessuto sociale, in quella zona della Sardegna, era strutturato come un sistema di clan di pastori – ha ricostruito lo psicologo Giuliano Ferrari – e in passato avvennero spesso conflitti tra gruppi diversi. Ma in questo caso è interessante analizzare l’influenza che l’investigatore ebbe nell’induzione del ricordo di Pinna, mostrandogli la foto di Zuncheddu. Si tratta di una forma di manipolazione del ricordo: ogni volta che recuperiamo un ricordo, lo stiamo già modificando. Anche in presenza di fenomeni di ipermnesia, il ricordo cambia. Con una forte induzione e con l’aspetto autorevole dell’investigatore, Pinna ha potuto inquinare quel ricordo e forse lo ha fatto anche per convenienza.

Poteva convenirgli ricordare in un certo modo, perché il vero ricordo poteva ritorcersi contro di lui. Dobbiamo calarci in quel momento in cui ci fu un trauma fisico e psicologico che genera vuoti di memoria e scarsa lucidità. Poi interviene la figura dell’investigatore che, nel tentativo di “aiutare” a ricordare, influenza il contenuto stesso della memoria, invece di lasciare che emergano elementi concreti dal testimone. Bisogna sapere che, se pongo il testimone davanti a una scelta, ne influenzo già il ricordo”.
 

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