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Moby Prince, la strage e gli esplosivi a bordo: 30 anni dopo, la svolta in tribunale

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Claudia Osmetti
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Trent' anni. Ci sono voluti (esattamente) trent' anni per riaprire il caso della Moby Prince e, in sostanza, tornare a uno dei punti di partenza. La procura di Firenze vuole far luce sulla tragedia del traghetto della Navarmar avvampato in un incidendo nella rada del porto di Livorno il 10 aprile del 1991. Un processo infinito, due gradi di giudizio, una commissione parlamentare d'inchiesta: siamo ancora qui, tre decenni dopo, a chiederci cosa sia successo, ad aspettare gli esiti di una perizia (altri novanta giorni) affidata a tre esperti di esplosivi. Adolfo Gregori, comandante della sezione Chimica dei Ris di Roma; Gianni Bresciani, ingegnere "esplosivista" e Danilo Coppe, che ha lavorato anche sulla strage di Bologna. La magistratura toscana (e mica solo lei) vuole sapere se ci sono nuovi elementi a suffragio della tesi che la Moby Prince stesse trasportando materiali pericolosi. Solo che, nel frattempo, la nave è affondata ed è stata recuperata e l'unico sopravvissuto (il mozzo Alessio Bertrand) dice di convivere «con l'ansia e la depressione».

Due scatole, 25 buste e una serie di reperti prelevati nel novembre del 1991. Una vita fa. Non è la prima volta che l'ipotesi degli esplosivi fa capolino tra le carte processuali. Già nel 1992 la Scientifica ha ammesso di aver «evidenziato tracce di esplosivo di uso civile all'interno di un locale a prua»: cinque tipi (ma ce ne sarebbero anche altri due, questa volta impiegati in campo militare), tra nitroglicerina e nitrato di ammonio. Quelli che "a uso civile" son noti come gelatine o dinamite. Il mandato che riapre l'inchiesta è firmato dalla Direzione distrettuale antimafia fiorentina, e forse non è un caso. Quella maledetta sera del 10 aprile di trent' anni fa, sulla Moby Prince, c'erano 141 persone: se n'è salvata solo una, un ragazzo napoletano che lavorava con l'equipaggio. Tutti gli altri son morti dopo le 22:03. Avevano appena lasciato il molo in direzione di Olbia, in Sardegna. Stavano uscendo dal porto quando il traghetto è entrato in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. È finito diritto dentro la cisterna numero sette, che conteneva qualcosa come 2.700 tonnellate di oro nero. Uno sversamento. In mare, ma anche sulla prua della Moby Prince. Quella prua che adesso è (di nuovo) sotto osservazione. E poi quell'incendio, le fiamme nel salone principale che era sì dotato di pareti tagliafuoco, ma era anche circondato dal rogo e non c'è stato più niente da fare. Una storia lunga trent' anni che ha vagliato il possibile errore umano, il malfunzionamento di alcuni apparati di sicurezza, le procedure di uscita dal porto.

"Si ventilano due ipotesi", dice Coppe al quotidiano Il Fatto, «che sono da smentire o da confermare: la prima riguarda l'esplosione come causa dell'incidente, la seconda il trasporto di esplosivi di matrice mafiosa, che poi sono bruciati». «Attendiamo fiduciosi gli esiti di quanto disposto», fa sapere, invece, Nicola Rosetti, che è il portavoce dell'associazione dei famigliari delle vittime. A complicare le indagini ci si è messo il 28 maggio del 1998, quando la Moby Prince, allora ancora sotto sequestro, è affondata nelle acque del porto di Livorno, sotto gli occhi di chi guardava dalla banchina. L'hanno recuperata e l'hanno avviata alla demolizione in Turchia, ma intanto l'orologio continuava a girare. A maggio di questi' anno è stata istituita pure una nuova Commissione sul disastro che è riuscita, per la prima volta, ad acquisire un nastro delle comunicazioni radio che non era mai stato ascoltato in passato preché (l'ennesima beffa) mancava un registratore particolare che era uscito di produzione. Resta l'amaro in bocca per il tempo trascorso, le 140 morti che ancora non trovano una spiegazione univoca, chiara. Quesiti senza risposta. E l'ennesima inchiesta mai arrivata in fondo.  

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