Se qualcuno avesse pensato che i bambini della cosiddetta “famiglia nel bosco” potessero trascorrere con i loro genitori almeno le festività natalizie, la dura realtà della legge è stata pronta a sconfessarlo.
Una legge arcigna, formalmente ineccepibile nel suo formalismo, che non fa i conti con i casi concreti e le situazioni specifiche come pure sarebbe necessario fare. Soprattutto in casi delicati come questo. E soprattutto tenendo conto del fatto che, in altri casi, i giudici con le loro “libere interpretazioni” si son spinti fin oltre il dettato formale.
In verità, la Corte d’Appello dell’Aquila era chiamata a rispondere soprattutto in merito all’esistenza o meno dei presupposti formali dell’allontanamento dei piccoli, cioè doveva appurare se non vi fossero vizi di forma nell’ordinanza dei giudici che lo avevano disposto.
E questo si sono limitati a fare, forse senza il coraggio di osare oltre. I giudici hanno però riconosciuto la possibilità che il provvedimento possa in linea di principio essere rivisto, rispondendo così positivamente alla memoria difensiva presentata dagli avvocati che invitava a prendere atto di un cambiamento di atteggiamento da parte dei genitori e di una loro disponibilità a collaborare.
UN VERO PARADOSSO
La sostanza di tutta la vicenda è però che i piccoli rimarranno nella casa famiglia, lontani dal loro nucleo familiare, anche a Natale. Era proprio necessario arrivare a tanto? Era necessario non far vivere loro, nella pienezza del suo significato, un momento così importante nella formazione individuale di ognuno?
Un vero e proprio paradosso, insomma: sottratti ai genitori per garantire loro un’educazione più compiuta li si priva di qualcosa che proprio a un tale tipo di educazione avrebbe potuto senza dubbio servire. Non sarà per loro un trauma vivere un Natale diverso da quello degli altri? Non segnerà, ancora di più, le loro esistenze, oggi alla mercé di decisioni legalistiche e persino politicamente orientate di persone estranee che decidono sulla loro vita? Il tutto per opera di uno Stato etico che, non solo si fa pedagogo ed educatore, ma, chiuso in un formalismo estremo, non riconosce né le ragioni del cuore né quelle dell’umana comprensione degli altri.
Proprio non si poteva rispondere positivamente alla mano tesa dai genitori attraverso i loro legali? Era proprio necessario mostrarsi inconsapevoli del fatto che quello che c’è da ricostruire è proprio un percorso comune e condiviso? Tante domande, certo, ma anche delle certezze.
LA RIFLESSIONE MANCANTE
Quel che più in generale sembra mancare, nella fattispecie di un caso che si sta sempre più politicizzando, è una riflessione seria sui limiti del potere dello Stato, sul ruolo della famiglia, sull’umanità di una giustizia che dovrebbe guardare in faccia chi è sottoposto ai suoi pronunciamenti, soprattutto se ha il volto innocente dei piccoli.
Preoccupante è poi l’attacco concentrico verso l’istituto della famiglia: con una battuta si potrebbe dire: separazione delle carriere e non delle famiglie. A guadagnarne sarebbe non solo la giustizia, ma la società tutta. Si potranno condividere o meno le dichiarazioni del ministri Salvini e Roccella che hanno commentato, fra gli altri, la sentenza di ieri definendola una «vergogna». Il fatto è che il senso ultimo delle loro parole è proprio nel richiamo a questo tipo di riflessione. Che purtroppo manca.