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Bossetti, il carabiniere ammette: taroccato il video del furgone

Eliana Giusto
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L'avvocato e il supercarabiniere, Claudio Salvagni e Giampiero Lago: un duello spettacolare. Nella giornata più importante del processo (fino ad oggi), Salvagni e Lago stanno discutendo di una prova decisiva: un filmato visto in tutte le televisioni, in tutti i programmi, in tutti i notiziari, quello in cui i carabinieri hanno montato i fotogrammi ripresi dalle telecamere di sorveglianza, in cui a detta degli inquirenti (fino ad oggi) appariva il furgone di Massimo Bossetti che gira freneticamente intorno alla palestra di Brembate la sera in cui è scomparsa Yara. Si è detto tante volte, lo hanno spiegato gli inquirenti: «È il predatore che si mette in caccia della sua preda». È una immagine che ha colpito molto, chiunque, anche me. Una di quelle che ronzano nella testa di chi è convinto che Bossetti sia un mostro che andava in cerca delle bambine, come i pedofili dei film. È il filmato che ha fatto litigare in carcere Marita e Massimo: «Tu quella sera erì li! Ti ho visto con il furgone! Che cosa facevi?». Anche lei aveva visto il filmino dei Ris e lo aveva creduto vero. Ieri ho scoperto dalla bocca del supercarabiniere più importante d'Italia due cose stupefacenti. La prima: che quel documento è stato confenzionato dai Ris e diffuso ai media, ma che incredibilmente non compare nel fascicolo processuale. E subito dopo ho scoperto un secondo elemento che non so come definire altrimenti: questo filmato, immaginifico e decisivo, è un falso. Un filmino tarocco. Tenete a mente questo botta e risposta, poi ci torniamo: - «Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?». - «Perché dice questo, avvocato?». - «Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane!». - «Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa». - «Cosa vuol dire colonnello?» - «È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa». La risposta di Lago mi lascia di stucco. Pensateci per un attimo. Giampietro Lago, il superpoliziotto, il comandante del Ris, l'uomo che dopo Luciano Garofalo è diventato il numero uno di tutte le indagini scientifiche coordinate dai carabinieri in Italia, sta dicendo che una delle immagini più suggestive di questo processo è stata assemblata dai suoi uffici non per dimostrare una tesi, o per documentare una verità, ma per condizionare i media con elementi di cui già si conosceva la non autenticità. Incredibile. Guardo Lago sul banco dei testimoni, con la sua montatura leggera, il vestito scuro, la cravatta, il tono cattedratico del carabiniere che parla come se fosse un professore universitario. Lago viene ascoltato, e sta raccontando dell'inchiesta sul delitto Yara, nell'aula di Bergamo, da tre lunghi giorni: nove ore solo venerdì pomeriggio. Un tempo infinito, soporifero, incomprensibilmente dilatato. Assisto per tutta la mattinata di venerdì alla sua deposizione, e penso che quasi quasi mi sta convincendo. Non per efficacia persuasiva: per sfinimento. Quando alle ultime battute del terzo giorno gli avvocati delle parti civili gli fanno delle rispettose domande, l'aula mormora di panico perché teme altre risposte prolisse, autorevoli e vacue: tutti guardano l'orologio. Tuttavia, in questi tre lunghi giorni, Lago mi ha quasi convinto dei capisaldi della sua tesi: 1) che le fibre del sedile del furgone di Bossetti sono inequivocabilmente sui vestiti di Yara 2) che il Dna è quello del muratore di Mapello 3) che sugli stessi panni ci sono delle minuscole sferette di metallo che quasi sicuramente provengono dal furgone di Bossetti. Poi improvvisamente la fiammata arriva il controinterrogatorio e, in un solo pomeriggio, il lavoro persuasivo di tre giorni crolla come un castello di carte, proprio per via di questo bombardamento di Salvagni. L'avvocato comincia chiedendo pazientemente come sia identificato il furgone di Bossetti. Poi chiede in quali fotogrammi Lago sia inequivocabilmente certo che il furgone sia quello. Ed è a questo punto che il colonnello commette il suo vero passo falso, ammettendo che nella maggior parte dei fotogrammi non c'è nessuna certezza che sia il suo. Il resto è una scena così veloce che la maggior parte delle persone, nel pubblico, non si rende conto di cosa stia accadendo. Salvagni fa collegare lo spinotto del computer al monitor dell'aula e trasmette quel video. Lago inizia a discuterne. E fa quelle incredibili ammissioni. A questo punto, mentre gli avvocati stanno gridando mentre le voci degli avvocati Salvagni, Camporini e del colonnello si sovrappongono si alza il pubblico ministero Letizia Ruggeri: «Presidente, questo video non è nella relazione che abbiamo consegnato! Presidente!!!». E Camporini, girandosi di lato: «E allora?». La Ruggeri, arrabbiata: «Non è nel fascicolo, non lo potete mostrare in questa aula». Risposta: «Lo avete fatto voi! È un vostro documento». La Ruggeri: «Non è nel fascicolo!». Putiferio. Camporini: «Chiedo che sia messo a disposizione della Corte l'intero materiale acquisito con le telecamere di videosorveglianza!». A questo punto interviene la presidente Bertoja che, in qualche modo, accetta le obiezioni del Pm: «Se non è nella relazione del Ris non ci interessa minimamente». Adesso: se dal punto di vista processuale questo può avere un senso, questo significa solo che bisognerebbe acquisire subito agli atti quel video. Ripenso infatti alle parole di Lago: «Il video è stato concordato con la procura a fronte delle numerose richieste di chiarimento». Tradotto in parole povere: siccome bisognava convincere la stampa della colpevolezza di Bossetti, «per fini di comunicazione» i Ris hanno «confezionato» quel video. Il Reparto fiction che serve a smussare i dubbi dei giornalisti? Sono sempre più perplesso, quando il controinterrogatorio arriva alle famose sferette. Lago, la mattina, con i suoi tempi, quando nessuno gli faceva domande, ci aveva spiegato questo: c'erano tante microparticelle ferrose, presenti sui vesti di Yara «centinaia» al momento dei ritrovamento del corpo, secondo lui provenivano dal furgone di Bossetti. Per farlo è partito alla sua maniera spiegando cos'è un microscopio elettronico, come funziona, le unità di misura… Ci ha spiegato che «le sferette», «hanno forme ben precise», che sono «tipiche delle attività antropioche che hanno a che fare con il ferro». Che «sui sedili del furgone di Bossetti di queste sferette ce ne sono migliaia». E poi ha aggiunto un dettaglio che dovrebbe conferire un crisma di indubitabile scientificità all'inchiesta: per capire se Yara poteva avere o meno sul suo corpo queste benedette sferette di metallo, i Ris sono andati a prendere addirittura quattro studenti di terza media di una scuola di Parma, che hanno più o meno la stessa età e la stessa vita che aveva Yara, li hanno testati con gli stessi strumenti, e hanno scoperto questo: su di loro solo due hanno addosso quattro sferette. Gli altri due ne hanno zero. Conclusione del professor-colonnello Lago: «La cosa più probabile è che queste centinaia di sferette sui vestiti di Yara arrivino dalle migliaia di sferette sui sedili di Bossetti». Chiaro, no? E invece, poi, in un pugno di minuti, ancora una volta il controinterrogatorio di Salvagni ha effetti devastanti sulle certezze dei Ris. «Colonnello, i quattro ragazzi che avete esaminato sono stati scelti con criteri statistici?». Lago fiuta la trappola: «Io non ho mai parlato di criteri statistici». Ma questo è un dato che lei ritiene statisticamente significativo?». E il colonnello: «No, non è significativo statisticamente». Salvagni: «Ma voi avete fatto questo stesso esame delle sferette sugli abiti della sorella di Yara, su quelli dei genitori?». Risposta: «No, non lo abbiamo fatto». Salvagni: «I ragazzi esaminati venivano dal vostro territorio?». Lago: «Dal parmigiano, sì». L'avvocasto di Bossetti, osa, e fa centro: «Appartenenti all'arma?». Lago: «Sì, parenti di appartenenti all'arma». Salvagni: «Avete verificato se ci sono acciaierie sul territorio?». La presidente si spazientisce: «Sarebbe stata una perdita di tempo!». E invece quello che capisco da questo controinterrogatorio è clamoroso, e si ripeterà pari pari anche sulle famose fibre dei furgoni. I Ris non hanno cercato dei ragazzi che frequentavano ambienti simili, ma sono andati, per comodità, a prendere qualcuno vicini alla loro sede: ma è ovvio che a Carrara i ragazzi avranno più probabilità di avere addosso polvere di marmo, così come è chiaro che a Dalmine potrebbe essere più facile avere residui ferrosi. Domanda chiave dell'avvocato: «Avevate a disposizione la macchina della famiglia Gambirasio, avete fatto un test su quei sedili?». Risposta di Lago: «No». Altra domanda: «Avete preso in considerazione dei muratori?». Risposta laconica: «No». Ancora l'avvocato:«Avete esaminato il furgone della palestra?». Risposta del supercabinieire: «No: è stata fatta un'altra scelta investigativa. Stavamo seguendo la ragazza». Salvagni: «Ma dopo avete controllato?». Risposta: «No. Sarebbe stato interessante, dal punto di vista investigativo. Ma dal punto di vista delle risorse…». Mi chiedo: ma se si tratta di ferro, l'assassino non potrebbe essere un fabbro, o un tornitore? Chiudo il taccuino e penso: in una inchiesta costata un paio di milioni di euro in cui si è risaliti al Dna di Batta Guerinoni nell'anno di grazia millessettecento, il supercarabiniere è andato ad esaminare dei ragazzi a Parma, ma nessuno ha avuto l'idea geniale di fare l'esame sulle fibre e sulle sferette delle macchine che Yara frequentava tutti i giorni. E nessuno ha pensato di esaminare l'unico furgone che è stato sicuramente avvistato da testimoni a Brembate, la sera della scomparsa. Forse non sarebbe emerso nulla. Chissà. Ma me ne vado da Bergamo pensando ai tre lunghi giorni di deposizione di Lago, e al video tarocco: essere noioso, quasi mai significa essere autorevole. Ma in questo caso significa sicuramente non esserlo. di Luca Telese

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