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Spesa, come scegliere alimenti italiani: nonostante i decreti e l'obbligo, solo il 3% delle referenze in vendita è tricolore

di Andrea Tempestini martedì 31 ottobre 2017

3' di lettura

Tempi duri per chi vuol mangiare italiano al 100 per cento. Aspirazione legittima, per tanti motivi, non ultimo un senso di patriottismo alimentare rafforzato dai dubbi, tanti, che riguardano le derrate d’importazione. La sfida, per i consumatori, è una sola: riconoscere i cibi tutti made in Italy, distinguendoli dal marasma che invade i banconi dei supermercati. Se le catene della distribuzione ci hanno abituati a cercare gli alimenti in base al gusto e all’utilizzo, l’industria di trasformazione ha sguazzato per decenni in quel terreno grigio fatto di leggi inefficaci e regolamenti europei che privilegiano l’anonimato. La madre di tutte le fregature è l’articolo 60 del Codice doganale dell’Unione europea in base al quale i prodotti alimentari acquisiscono la nazionalità del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale. Non a caso l’articolo è intitolato proprio “acquisizione dell’origine”. Scritta sotto dettatura delle lobby degli esportatori tedeschi e nord europei, la norma ha consentito di naturalizzare migliaia di referenze. Dalla pasta ai formaggi, dai salumi alle conserve vegetali e animali. I governi italiani hanno cercato di metterci una pezza negli ultimi vent’anni, approvando norme spesso annullate dalla Commissione europea e sovente vanificate dalle furberie della grande industria alimentare che non esita a confondere i consumatori pur di fare profitto. Il caso più recente riguarda i decreti approvati dai ministri Martina (Politiche agricole) e Calenda (Sviluppo economico) sull’origine obbligatoria in etichetta per riso e pasta. Dopo un tira e molla durato oltre sei mesi - l’ultima parola in tema di etichettatura degli alimenti spetta alla Ue - i due esponenti del governo hanno deciso di firmare e pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale i due decreti. Salvo poi incassare la minaccia dell’esecutivo Ue di aprire una procedura d’infrazione. Ma come devono comportarsi i consumatori che desiderino acquistare con certezza i prodotti italiani? La regola aurea, valida sempre, è una sola: leggere con grande attenzione le etichette dei cibi che si mettono nel carrello della spesa. Ma non tutti i cartellini raccontano fino in fondo l’origine delle materie prime. Anzi: nella stragrande maggioranza dei casi cercano di nasconderla. L’importante, infatti, è sapere quel che si può cercare e trovare sulla confezione. La tabella che accompagna questo articolo descrive in breve lo status quo. E rappresenta un valido aiuto per iniziare a capire da dove arrivino le derrate alimentari che stiamo per acquistare. Da un lato ci sono i cibi per i quali è obbligatorio dichiarare l’origine delle materie prime: carne di pollo, carne bovina, carne suina fresca, uova, miele, pesce, passata di pomodoro, frutta e verdura fresche, olio extravergine d’oliva, latte, formaggi, burro e yogurt. Poi ci sono tre tipi di referenze per le quali è stato approvato un decreto sull’origine obbligatoria, ma c’è da registrare la contrarietà della Commissione Ue. È il caso, ad esempio, della pasta. Dopo che le industrie del settore hanno preannunciato ricorsi a raffica al Tar e alla Corte europea, di sicuro non c’è nulla. Diverso il caso dei derivati del pomodoro. Mentre per la passata l’origine è obbligatoria in etichetta da anni, su concentrato, polpa e sughi è scattato da poco l’ennesimo decreto della premiata ditta Martina e Calenda. L’Europa per ora tace. Resta da capire se il silenzio significhi un assenso implicito, oppure se siano in arrivo le solite minacce di mettere l’Italia in mora. L’elenco degli alimenti di origine sconosciuta, che per di più hanno etichette spesso reticenti è lunghissimo. E va dalla carne trasformata alle conserve vegetali. Passando per salumi, pane, succhi di frutta, dolciumi. Per andare sul sicuro si possono scegliere i cibi Dop (Denominazione di origine protetta) e quelli che dichiarano l’origine 100% italiana. Ma in tutto sono appena il 3% del totale. di Attilio Barbieri

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