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Mivar, chiude la storica fabbrica di tv. Vichi: "Regalo il mio stabilimento"

di Andrea Tempestini domenica 9 marzo 2014

2' di lettura

La fine di una grande storia italiana. Per i numeri sarà soltanto l'ennesima azienda uccisa dalla crisi. Ma questo "numero", alle spalle, ha una lunga e gloriosa storia. E' la Mivar, l'unica fabbrica italiana di apparecchi televisivi (nel boom del passaggio al colore arrivò a produrre un milione di apparecchi all'anno) che ora è costretta a chiudere i battenti. Gli ultimi pezzi sono stati prodotti a dicembre. Lo storico patron, Carlo Vichi - oggi ha 90 anni ed è ancora al timone - si commuove quando racconta a Repubblica la fine del suo sogno: così non può più andare avanti. Vichi, però, non vuole chiudere del tutto questa pagina, e spiega: "Se una società di provata serietà accetta di fare televisioni in Italia, io gli offro la mia nuova fabbrica, pronta e mai usata, gratis. Non voglio un centesimo. Ma chiedo che assuma mille e duecento italiani, abbiatensi, milanesi. Questo chiedo. Veder sorridere di nuovo la mia gente". "Un posto insuperabile" - Il patron Vicchi, insomma, è disposto a regalare i suoi due piani, 120mila metri quadri totali, con tanto di parcheggi, un'ampia mensa e un presidio medico. "Un posto insuperabile - aggiunge -, qui ci possono lavorare in 1.200, tutto in vista, senza ufficetti. Visto com'è luminosa? Molti - prosegue - pensavano che con i risparmi mi facessi una casa. Ma io ho fatto questo, immaginando tanta gente muoversi e che mi sorridesse". Però, complice la crisi, ora la produzione è ferma. Rocco, uno degli operai storici della Mivar, ricorda i tempi del boom: "Eravamo in novecento e facevamo 5.460 televisori al giorno, un milione all'anno. Ora è tutto vuoto, solo qualche scrivania. I grossi colossi ci hanno calpestato. Ho disegnato televisori per venticinque anni, anche se il vero designer è il signor Vichi, io la mano. E' rimasto sempre in trincea - ricorda -, al suo tavolo con le rotelle in mezzo a noi, la sua morsa, le sue idee, il suo compasso. Lavorando anche di sabato e di domenica". Oggi, però, non si lavora più.

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