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Tito e il ruolo dei partigiani comunisti jugoslavi nella resistenza italiana: il libro di Marco Petrelli

mercoledì 9 settembre 2020

2' di lettura

“Descrivere il ruolo dei partigiani jugoslavi nella Resistenza Italiana va ben oltre lo studio del drammatico capitolo della Guerra civile. Significa infatti immergersi nell’analisi di un’area del mondo, i Balcani, nel quale la conflittualità etnica supera diatribe e scontri ideologici” afferma Marco Petrelli, giornalista e autore de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia, pagg. 162, Euro 17,00).


Alla data della comunicazione dell’Armistizio con gli anglo-americani sul suolo italiano erano internati migliaia di prigionieri di guerra e di civili di paesi nemici. Fra loro molti slavi caduti nelle mani delle forze dell’Asse dopo la sconfitta del Regno di Jugoslavia nel ’41 e fuggiti inseguito al caos generato dalle vicende armistiziali.  Soli in una nazione nemica, in un territorio sconosciuto e ormai zona di guerra, nel tentativo di sopravvivere in diversi si unirono alla Resistenza Italiana, che iniziava a nascere proprio nell’autunno del 1943. 

“L’esperienza maturata nell’Esercito Nazionale di Liberazione della Jugoslavia fu una risorsa per le bande che li accolsero i cui membri, italiani, pur motivati sovente mancavano di capacità militari ed organizzative. Altre volte, l’inquadramento ideologico degli jugoslavi è stato elemento di attrito (specie con le formazioni costituite da militari del disciolto Regio Esercito) sul trattamento dei prigionieri, delle spie o presunte tali, circa l’obbedienza al CLN e al Comando supremo di Brindisi e sull’opportunità di evitare d’esporre la popolazione ad inutili rappresaglie” continua l’autore.


Stranieri in un paese che li aveva catturati e deportati, erano infatti più interessati a combattere i tedeschi nell’ottica di tornare presto alle loro case, piuttosto che alla sorte dei civili italiani. Ulteriore elemento di scontro con le anime diverse della Resistenza italiana si materializzò nelle zone di confine. Qui, l’acceso nazionalismo del IX Corpus sloveno e l’atteggiamento ambiguo (quando non accomodante) del Partito comunista italiano, provocarono una profonda frattura con quelle anime del movimento partigiano pronte invece a difendere l’integrità del territorio nazionale da qualunque nemico, tedesco o slavo. 


Ed è proprio il tema del nazionalismo che l’Autore approfondisce nel suo studio: “Il comunismo fu un ‘collante’ sociale ma lo strumento che davvero permise a Tito di raggiungere il suo obiettivo (prima militare, poi politico) fu il nazionalismo. La precedente esperienza del Regno di Jugoslavia aveva infatti palesato la necessità di un elemento capace di tenere insieme popoli tanto diversi fra loro e in secolare conflittualità, di fare in modo che essi si riconoscessero in un’unica nazione nata dalla lotta contro i nemici esterni (Asse) e interni. Vale a dire quelle minoranze perseguitate durante e dopo il conflitto. Abbandonando dunque la teoria dello scontro ideologico, coltivata per decenni da una storiografia non sempre obiettiva, questo studio cerca anche di analizzare il progetto politico di Josip Broz e l’eredita da esso lasciata dopo la morte del dittatore”, conclude Marco Petrelli.

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