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Intercettazioni in dialetto, processi bloccati: il "trucco" dei criminali calabresi

Claudia Osmetti
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In Italia esiste una trentina di lingue dialettali territoriali. Ognuna delle quali, a sua volta, ha espressioni, accenti e modi di dire differenti a seconda del dato ancora più strettamente locale. La parlata campana è diversa da quella lombarda, e fin qui lo riconosciamo tutti: però il napoletano non è il salernitano che non è il casertano che non ha niente a che vedere con le sfumature degli idiomi dei paesini dell’Irpinia (e a questo punto, sapere discernere non è facile per un orecchio non allenato o non del posto). Tutto ciò, che è sì materia linguistica ma non solo, ha una ricaduta (e pure enorme) sulla Giustizia.
Rientra, infatti, nel complesso capitolo delle intercettazioni a cui il guardasigilli Carlo Nordio ha (correttamente) messo mano e che rappresentano uno degli espedienti investigativi più controversi. Tribunali, procure e commissariati non si limitano, com’è intuibile, a registrare “di nascosto” le conversazioni di un indagato. Le ascoltano. Le interpretano. Le traducono. Spesso con risultati poco edificanti.

GLI ESEMPI

Esempio numero uno. Angelo Massari (sulla sua vicenda hanno fatto anche un docufilm, Peso morto) viene arrestato nel maggio del 1996. L’accusa con cui lo “incastrano” è omicidio. Siamo in provincia di Taranto e da qualche giorno è scomparso un uomo, Lorenzo Fersurella. Alle prime battute dell’inchiesta qualcuno tra gli inquirenti si ricorda di un particolare: Massari, coinvolto in un’operazione di spaccio, l’anno prima, intercettato, aveva detto alla moglie, parlando in dialetto: “Sto portando stu muers” (che significa “sto portando un peso”, ma per una svista “muers” diventa “muort”, morto, e Massari si becca una condanna a 24 anni di carcere, nonostante non abbia né un movente né un’arma e addirittura il cadavere di Fersurella non venga trovato). Per provare la sua innocenza a Massari serve un processo di revisione, ma nel frattempo ha scontato 21 dei 24 anni che gli sono stati comminati.

 

 

 

Esempio numero due. Quando a Trento, è il gennaio del 2022, si apre il processo Perfido, il primo che mette sotto torchio le infiltrazioni della ‘ndrangheta nella provincia autonoma, la magistratura viene sommersa da migliaia di intercettazioni ambientali e telefoniche per centinaia di ore di registrazioni. Il guaio è che sono in calabrese stretto e nel profondo nord, più affine ai suoni spigolosi del tedesco che a quelli aspirati del catanzarese, sono necessari ben quattro periti, tre dei quali nativi calabresi. Il risultato è che la prima condanna diviene definitiva solo a marzo di quest’anno. Un elenco incompleto di casi simili potrebbe riempire non solo questa pagina ma l’intera edizione di Libero di oggi.

Quello che fotografano è un sistema che anche senza intenzione può essere distorto con facilità. Nella migliore delle ipotesi a farne le spese sono i tempi della giustizia (un procedimento a carico di cinque persone, al tribunale di Bergamo, aperto per una rapina a un camion di rame avvenuta nel 2011, è iniziato solo quattro mesi fa perché serviva un conoscitore del calabrese; un processo per omicidio a Udine, l’anno scorso, ha subito un rallentamento perché l’interprete chiamato a tradurre dal foggiano ha gettato la spugna dato che le registrazioni erano in un dialetto talmente particolare che nemmeno lui lo capiva), nella peggiore poveri cristi che diventano vittime di una giustizia traballante (nel 2013 due fratelli pugliesi hanno chiesto un risarcimento di un milione di euro perché nel 2004 sono stati sbattuti in prigione, tre anni, considerati affiliati a un clan mafioso, solo perché l’interprete che ha gestito le loro intercettazioni era di Bologna e non capiva il barese).

ALTRE LINGUE

Questo genere di malintesi, tra l’altro, e a maggior ragione, capita quando all’interno delle inchieste rientrano culture e linguaggi molto più lontani dal nostro: nel 2023, a L’Aquila, un incartamento sulla “mafia nigeriana” ha segnato un intoppo dopo che l’avvocatessa di una delle parti ha scoperto che i quattro periti del tribunale che dovevano occuparsi delle intercettazioni si erano avvalsi, vista la difficoltà, di altri consulenti non autorizzati; a Prato, nel 2019, per un processo analogo sulla “mafia cinese” si sono fatti i salti mortali per recuperare un interprete di un particolare dialetto mandarino.
Come osserva a ragione il sito IlPost le approssimazioni e gli sbagli non sono l’unica grana: il grosso disguido è che non c’è un criterio standard per trattare le intercettazioni. La conseguenza, per chi voglia vederla, è chiarissima.

 

 

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