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Che prof sono se usano l'AI? Il racconto di una rivolta

Una laureanda americana ha chiesto all’ateneo il rimborso della retta dopo aver scoperto che il docente preparava le lezioni con ChatGpt
di Luca Puccini martedì 20 maggio 2025

4' di lettura

È il mondo all’incontrario e no, non è una citazione del libro di Roberto Vannacci. È, semmai, che quando l’Intelligenza artificiale (Ai, all’incontrario pure l’acronimo dato che nel mondo della sacrosanta iperconessione vale per tutti la lingua inglese) entra in classe, e ci rimane un po’ troppo, pensi sia per colpa di qualche ragazzino furbetto, che ha studiato no epperò vuole la sufficienza in pagella: e invece no, il vizio, ora, ce l’hanno anche i prof. Questa storia arriva dagli Stati Uniti, ma nell’era moderna fatta di byte e di click, non c’è oceano che ci separi. Facciamo tutti un po’ paese. La Northeastern university di Boston è un’università del Massachussetts non famosa come la vicina Harvard ma non per questo non prestigiosa: è privata, è blasonata, è carissima. E sta tutta qui la ragione per cui Ella Stapleton ha presentato, a febbraio, un richiamo formale all’ateneo di Economia nel quale è iscritta chiedendo il rimborso di 8mila dollari pari al costo dell’intero semestre in cui ha seguito il corso del professor Rick Arrowood sui “modelli di leadership”.

Si è accorta, Ella, che il materiale didattico che le veniva propinato era stato preparato chiedendo a ChatGpt di scriverlo e, insomma, se il livello era quello, avrebbe potuto risparmiarsi i sacrifici e studiare per conto suo. Ragionamento che non fa una grinza: anche perché la ragazza s’è imbattuta per caso nella scoperta. Ha notato, cioè, alcune espressioni troppo generiche per poter essere pensate da un docente e ha notato anche errori ortografici grossolani, immagini distorte e anomalie evidente (quelle che i chatbot fanno di continuo perché usano le parole come un codice informatico). Il prof Arrowook, quindi, non solo aveva affidato all’Ai la stesura delle sue dispense, ma non le aveva neppure rilette. A questo punto Ella s’è arrabbiata: anzitutto perché, con quello che aveva appena sborsato, si era ritrovata in possesso di slide approssimative e neppure troppo attendibili, e in secondo luogo perché si stava configurando una disparità di trattamento. Gli allievi non possono (giustamente) usare ChatGpt per le loro tesine o per i saggi ma i professori possono impiegarla per fare lezione e impartire insegnamenti sui quali, tra l’altro, dovrebbero essere pensati quegli stessi compiti?


È un cortocircuito, ma è anche una questione di principio ed è persino una vicenda emblematica perché Arrowood, pizzicato con le dita sulla tastiera del pc, non ha negato nulla, anzi ha ammesso di aver fatto ricorso a ChatGpt e anche al motore di ricerca Perplexity e alla piattaforma Gamma: «All’inizio sembrava tutto perfetto, ma col senno di poi avrei dovuto prestare maggiore attenzione. I professori dovrebbero avvicinarsi all’Ai con più cautela e rivelare agli studenti quando e come viene utilizzata. Sono felice se qualcuno potrà imparare dal mio caso», ha dichiarato al quotidiano statunitense The New York Times. Punto (quasi) centrato: nel senso che sì, la trasparenza coi propri studenti è un elemento fondamentale del rapporto didattico, mano, quando di mezzo ci sono computer e ricerche in rete e strumenti tecnologici, non è solo un fatto di rispetto reciproco, è anche autotutela. S’accorgono, i ragazzi. E s’accorgono prima dei prof cinquanta o sessantenni: semplicemente perché ci sono nati, loro, con le comunicazioni digitali. Infatti sul sito Rate my professor, che è una sorta di Tripadvirsor per docenti Usa, di lamentele sulla falsariga di quella di Ella ce ne sono già a iosa. Chi è convinto di essere stato giudicato da un robot («Ho la sensazione che la prof non abbia nemmeno letto il mio elaborato») e chi crede d’esser stato truffato («La lezione pareva scritta da ChatGpt. Anzi, probabilmente era così»).


Il discorso, allora, è articolato. Ha ragione Ella, hanno ragione i suoi colleghi americani e ha ragione anche il prof Arrowood. La verità è che l’Ai è uno strumento (alla Fiera Didacta Italia di marzo, Indire e La tecnica della scuola hanno presentato una ricerca che sostiene che qui, nel nostro Paese, il 52,4% degli insegnante dichiara di servirsi dell’Ai per supportare la didattica, un altro 10% di utilizzarlo per seguire al meglio gli studenti con difficoltà e il 21,5% di chi non ne fa mistero di sfruttarla per redigere i verbali delle riunioni del corpo docente: il profilo della prof alle prese con ChatGpt è una donna con più di cinquant’anni, con un contratto a tempo indeterminato, che lavora nella scuola secondaria e che ha almeno dieci anni di insegnamento di materie umanistiche sul curriculum) e come tale bisogna saperlo usare. Non fa miracoli, men che meno infonde il sapere (e la regola d’oro è sempre che un buon insegnante fa la differenza, non c’è Ai che regga il confronto): può aiutare, a patto ci siano delle condizioni.

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