Dichiarazioni. Precisazioni. Pareri, piegazioni, messe a punto, chiarimenti. Tutti legittimi, per carità: che è una sciocchezza, in democrazia, quella cosa delle sentenze che non si commentano, figuriamoci le inchieste. Però qui, i casi Garlasco, al plurale, nel senso che non c’è solo il faldone riaperto a carico di Andrea Sempio ma anche le archiviazioni che il commesso di Vigevano ha incamerato e l’indagine finita in giudicato per Alberto Stasi, sono un chiacchiericcio continuo. Arrivati a questo punto, tocca anzitutto fare autocritica perché il cancan mediatico che non martella su altro è alimentato (anche) dalla stampa ed è innegabile che l’omicidio di Chiara Poggi sia tornato a essere la notizia della settimana tra approfondimenti, speciali e interviste ai protagonisti. Noi giornalisti, tuttavia, una scusa ce l’abbiamo: vale quel che vale, ma è il nostro lavoro raccontare ciò che succede. Far scivolare la giustizia in un reality show, invece, con gli annunci urbi et orbi delle rogge dragate e delle perquisizioni alle sei del mattino, oppure con gli avvocati omnipresenti sui social network, è un tantinello differente.
Si critica tutto su Garlasco (compreso l’outfit dell’avvocata di Sempio in jeans e felpina), ma il punto lo centra il collega della difesa Massimo Lovati: «Dovrebbe esserci il segreto istruttorio nei procedimenti seri», dice, «e invece escono cose dappertutto e ne escono di ogni». Partiamo da questo. È uno schietto, Lovati, e ha ragione (anche se, tecnicamente è più corretta l’espressione “segreto investigativo” piuttosto che “segreto istruttorio”, ma il concetto non cambia).
Da quando il frullatore (mediatico) si è riacceso nella bassa lombarda, la procura di Pavia non ha rilasciato mezza affermazione, ma in un modo o nell’altro sono diventati pubblici particolari che non avrebbero dovuto (gli ultimi due: la fotografia della famosa impronta numero 33 e il contenuto degli altrettanto noti bigliettini scritti da Sempio e gettati nella spazzatura).
È che il silenzio, su Garlasco, proprio non riesce a calare. E se da una parte la questione è addirittura procedurale (ben fa Lovati a segnalarla), dall’altra c’è la carica di chi, tirato in ballo oppure ritornato in auge, magari a distanza di anni, prova a metterci un punto. Certezze pochine, discussioni infinite.
L’ex comandante dei carabinieri di Garlasco, per esempio, Franco Marchetto, la divisa l’ha attaccata al chiodo da tempo e, adesso, gestisce un bar in paese: «Torno in gioco per riabilitarmi», fa sapere, «la procura ha in mano molto e ci stupirà. Finora c’è stato un colpevole, non il colpevole (o i colpevoli) e quando si saprà la verità si scoprirà, si capirà anche il male che è stato fatto a me, da chi e il motivo». Si sfoga, Marchetto, e lancia il sasso nello stagno: «La vera domanda è il movente», sibillino quanto basta, «quando salterà fuori farà male a due famiglie».
Quando il maresciallo Marchetto prestava servizio nel pavese, a capo della procura cittadina c’era il magistrato Mario Venditti: altro nome ripescato dalle cronache nazionali, altro professionista che ha cambiato vita (è in pensione e presiede il casinò di Campione d’Italia), altro ex addetto ai lavori che interviene per invitare, tramite l’avvocato Domenico Aiello, chiunque tiri in ballo Garlasco ad «attenersi ai fatti nella loro oggettività e continenza» e a evitare «ulteriori narrazioni e ricostruzioni diffamatorie e lesive dei suoi decoro e patrimonio di onorabilità».
Venditti sottolinea che «non ha mai svolto la funzione di magistrato» nel processo per quel maledetto 13 agosto del 2007 (fatto verissimo: la pratica, allora, era stata gestita dalla procura di Vigevano, mentre lui era responsabile di quella di Pavia) e «non ha mai rappresentato la pubblica accusa nel processo» contro Stasi: della vicenda, infatti, si sono occupati diversi colleghi (oltre quaranta, tra giudicanti e requirenti), in particolare la pm Rosa Muscio, bresciana, 54enne, oggi un’apprezzatissima carriera al tribunale dei minori ma all’epoca, a soli 36 anni, alla sua prima esperienza dopo essere stata funzionario di polizia.
È corretto, Venditti (semmai), successivamente alla sentenza a sedici annidi Stasi, «è stato co-assegnatario di un fascicolo di indagine su Sempio», in relazione al quale ha disposto nuove indagini alla cui conclusione ha ritenuto di chiedere «l’archiviazione dell’ipotesi investigativa, attese l’inservibilità e l’infruttuosità della prova scientifica dedotta e valutati gli esiti» della nuova inchiesta. Era il 2017. Tre anni dopo i carabinieri di Milano hanno trasmesso un’informativa a Pavia in cui era stata evidenziata «una serie di anomalie nelle precedenti indagini»: «richiamando i motivi della precedente archiviazione e vista la carenza di riscontri oggettivi», anche in questo caso Venditti ha archiviato. Nessun mistero, quindi: semplice lavoro giuridico, tant’è che «ancora oggi la sentenza di condanna rimane cosa giudicata e dunque inamovibile, la recente iniziativa della procura di Pavia, del tutto legittima, ne dovrà in tenere conto».
Su Garlasco, infine, si sofferma Giampietro Lago che è stato il comandante per quindici anni dei Ris di Parma: non entra nel merito, Lago, ma aggiunge che «tutte le opportunità di difesa di Stasi sono state onorate» e che «la verità processuale ha permesso di stabilire che oltre ogni ragionevole dubbio era colpevole» e che «le nuove attività sono integrazioni, non cancellano tout court quanto avvenuto» e che «una traccia, biologica o d’altra natura, nell’economia di un’indagine può essere dirompente ma può anche non significare nulla».